3. INDAGINE

In questo capitolo introduciamo il concetto di indagine come una pratica regolata da due norme epistemiche: le norme di revisione e di formazione delle credenze. Il concetto di indagine sarà centrale per il modello di post-verità presentato nel capitolo successivo.

3.1. Che cos’è l’indagine e qual è il ruolo della verità nell’indagine

Ci capita quotidianamente di porci domande su tematiche di vario genere e natura che spaziano da questioni del tutto ordinarie (ad esempio, se prendere la metropolitana oppure l’autobus per raggiungere più velocemente l’aeroporto) a questioni estremamente complesse (ad esempio, come l’universo abbia avuto origine). In questi casi, e in casi analoghi, ciò che ci accingiamo a fare è raccogliere e vagliare le prove a noi accessibili in relazione alle domande che ci siamo posti. Per quanto riguarda il primo esempio, tipicamente ci informiamo degli orari di metro e autobus, confrontiamo il costo dei due mezzi, appuriamo le condizioni del traffico nelle ore precedenti al nostro volo, ecc. Nel caso invece della questione dell’origine dell’universo, cosa conti come prova a favore o contro quella che è considerata la principale teoria a riguardo – ovvero la teoria del Big Bang – è questione ovviamente molto più complessa e controversa: ad esempio, il modo in cui l’universo si espande, la presenza della radiazione cosmica di fondo, le osservazioni circa la formazione ed evoluzione di galassie, e la distribuzione di strutture cosmiche di larga scala (Gladders et al. 2007). In altre parole, per dare risposta alle nostre domande, conduciamo un’indagine al riguardo. Siccome il concetto di indagine giocherà un ruolo cruciale nelle prossime pagine, occorre chiarire alcuni suoi aspetti fondamentali, in particolare rispetto alla sua struttura normativa.

3.2. Indagine come pratica

Partiamo dunque fornendo una caratterizzazione più precisa dell’indagine: l’indagine è quella pratica complessa che consiste nel raccogliere, soppesare e valutare le prove (e controprove) a nostra disposizione in relazione alla domanda, o alle domande, di nostro interesse, al fine di formarci credenze vere e/o rivedere credenze false su di essa (in questo saggio non ci occupiamo di altre forme di indagine come quella esplorativa, discussa in Steinle 1997). Com’è evidente dalla definizione appena fornita, il concetto di verità gioca un ruolo normativo centrale nell’indagine. Più precisamente, la verità funge da duplice ideale normativo. Da un lato, la scoperta della verità rispetto all’oggetto della nostra indagine è uno degli obiettivi principali del nostro indagare, ovvero ciò a cui noi tendiamo in ultima istanza nel condurre l’indagine. Dall’altro, la verità gioca anche il ruolo di standard di correttezza: la verità è, infatti, ciò a cui sottoponiamo i nostri giudizi al fine di determinarne la correttezza e quindi di valutare se mantenerli o rivederli.

Alcuni filosofi, come Michael Dummett (Dummett 1959), hanno illustrato il ruolo normativo della verità per mezzo di un’analogia tra il concetto di verità e quello di vittoria nel contesto di un gioco competitivo. Si pensi, per fare un esempio, al gioco degli scacchi. In una partita a scacchi l’obiettivo dei due giocatori è vincere, ovvero porre il re avversario in scacco matto. Pertanto, vincere funge da scopo primario della partita. Tuttavia, per vincere ciascun avversario dovrà eseguire una serie di mosse e contromosse strategiche al fine di massimizzare le sue probabilità di successo (e minimizzare quelle di sconfitta). In altre parole, ciascun giocatore cercherà di eseguire le mosse che più di altre massimizzano le sue probabilità di porre il re dell’avversario in scacco matto. È in questo senso che vincere funge da standard di correttezza nel gioco degli scacchi. Analogamente, lo scopo dell’indagine è quello di acquisire verità circa le domande che ci poniamo e, nel fare ciò, eseguiamo una serie di mosse e contromosse strategiche – ad esempio, vagliamo criticamente le nostre credenze in relazione a tali domande in funzione della loro verità. Vi è inoltre un’altra analogia strutturale tra le due pratiche. Si è detto che, durante una partita, ciascun giocatore di scacchi è portato a eseguire quelle mosse e contromosse che massimizzano le sue probabilità di vincere, così come, nel praticare l’indagine, un agente è portato a formarsi credenze vere. Tuttavia, il più delle volte, tanto nel giocare a scacchi quanto nel praticare l’indagine, non sappiamo se, rispettivamente, una data mossa sia di fatto quella che, relativamente alla situazione della scacchiera al momento dell’esecuzione, massimizza le probabilità di vincere, o se una data azione nel contesto dell’indagine (per esempio, il formarsi una certa credenza1CREDENZA (O GIUDIZIO) – Quello stato mentale volto a rappresentare la realtà e il cui contenuto consiste in una proposizione che viene presa come vera.) massimizzi le probabilità di raggiungere lo scopo dell’indagine – ovvero la verità relativamente all’oggetto dell’indagine. In entrambi i casi, il massimo che possiamo fare è appellarci alle nostre giustificazioni per credere che una data mossa massimizzi le probabilità di vincere o che una certa proposizione sia vera. Questo, focalizzandoci ora esclusivamente sulla pratica dell’indagine, non inficia la tesi che la verità sia la norma primaria e svolga quindi il duplice ruolo normativo illustrato sopra. Infatti, il tipo di giustificazione in questione è di natura epistemica e, in quanto tale, è orientata verso la verità: è appunto una giustificazione per credere che una certa proposizione sia vera (e non semplicemente giustificata). In questo senso, nel contesto dell’indagine, la giustificazione epistemica gioca un ruolo normativo ausiliario, ma perfettamente in linea con il duplice ideale normativo della verità.

Si è parlato sopra di giustificazione epistemica per marcare un qualche tipo di differenza con altre forme di giustificazione. Ma di che differenza si tratta? In epistemologia si è soliti distinguere tra questioni prettamente epistemiche e questioni di stampo pratico o pragmatico. In generale, alcuni concetti chiave in epistemologia, come appunto quelli di giustificazione2GIUSTIFICAZIONE – Una ragione a favore o contro la credenza in una proposizione. Il termine “giustificazione” ha un uso tecnico in epistemologia e, a seconda della teoria epistemologica che si adotta, può essere definito in maniera differente. In questo saggio usiamo il termine grosso modo per indicare l’avere ragioni a favore o contro la credenza in una certa proposizione (per un’introduzione alle diverse teorie sulla giustificazione si veda Volpe 2015). e conoscenza, benché in modi differenti, sono concetti intimamente connessi a quello di verità. In che modo? Come detto sopra, la giustificazione epistemica è una giustificazione per la verità di una proposizione: siamo interessati ad accumulare giustificazioni (prove) per una determinata proposizione, primariamente perché siamo interessati a scoprire se la proposizione in questione sia vera. Per quanto riguarda la nozione di conoscenza (intesa come conoscenza di una proposizione), questa implica la verità. Facciamo un esempio: se so che Madrid è la capitale della Spagna, allora è vero che Madrid è la capitale della Spagna. Al fine di prevenire possibili confusioni, è importante precisare che sapere e credere di sapere sono due cose ben diverse: ovviamente possiamo sbagliarci credendo di sapere qualcosa che in realtà è falso – ad esempio, possiamo credere di sapere che Napoli è a nord di Roma – ma non possiamo sapere qualcosa che è falso – ovvero, non possiamo sapere che Napoli è a nord di Roma. Detto questo, vi sono anche forme di giustificazione e conoscenza non epistemica che hanno a che fare prima di tutto con considerazioni di tipo pratico o pragmatico e, come tali, non si basano sulla verità della proposizione in questione. Un esempio calzante di giustificazione non epistemica ci è fornito dalla cosiddetta scommessa di Pascal, discussa al §233 di Pensées (1670). Blaise Pascal ci offre una giustificazione pragmatica per credere nell’esistenza di Dio. Con qualche semplificazione, il ragionamento di Pascal è il seguente: anche assumendo che l’esistenza di Dio sia un fatto improbabile e che non possa essere provato, i benefici potenziali che possiamo trarre dal credere nell’esistenza di Dio sono talmente ampi, secondo Pascal, che rendono del tutto razionale scommettere sulla sua esistenza. Questo ci offrirebbe una giustificazione di stampo pragmatico per credere che Dio esiste, in quanto avere tale credenza è più vantaggioso che non averla. Una giustificazione pragmatica di questo tipo non risponde alla duplice norma della verità ma a norme pratiche: siccome è vantaggioso credere che Dio esista, è richiesto, da un punto di vista pratico, di formarsi tale credenza, indipendentemente dalle nostre ragioni per ritenere che tale credenza sia vera. Di fatto, possiamo trovarci in una situazione di conflitto normativo: le norme pratiche – ammettendo che Pascal abbia ragione – ci richiedono infatti di credere che Dio esista, mentre le norme epistemiche, data la scarsità o addirittura la totale assenza di prove in nostro possesso, ci dicono di non formarci tale credenza – posizione, questa, compatibile con quella agnostica circa la questione dell’esistenza di Dio.

Una volta chiarita la distinzione tra giustificazioni epistemiche e pragmatiche, in quanto segue ci focalizzeremo esclusivamente sul ruolo normativo che le prime svolgono nel contesto dell’indagine.

Continua a p. 2 – 3.3. La struttura normativa dell’indagine