Ritorna a p. 2 – 2.4. La natura della verità
2.5. Alcuni fraintendimenti frequenti sulla nozione di verità
Quando Galileo osservò per la prima volta la Luna con il cannocchiale credette, correttamente, di vedere una superficie che, analogamente a quella terrestre, presentava dei rilievi. Questa osservazione contraddiceva quanto sostenuto dall’astronomia tolemaica che trattava i corpi celesti come sfere perfette. Secondo lo storico e filosofo della scienza Paul Feyerabend i cannocchiali che usò Galileo non erano sufficientemente potenti per fornire immagini abbastanza nitide della superficie lunare, quindi la credenza1CREDENZA (O GIUDIZIO) – Quello stato mentale volto a rappresentare la realtà e il cui contenuto consiste in una proposizione che viene presa come vera. di Galileo che la Luna avesse rilievi montuosi era vera, ma non pienamente giustificata (si veda Feyerabend 1975, cap. 8). Anche se è vero che la superficie lunare è cosparsa di rilievi montuosi, ciò è diverso dal fatto che Galileo lo credesse, come è diverso dall’esserci o meno una giustificazione per questa opinione. Verità, opinione e giustificazione2GIUSTIFICAZIONE – Una ragione a favore o contro la credenza in una proposizione. Il termine “giustificazione” ha un uso tecnico in epistemologia e, a seconda della teoria epistemologica che si adotta, può essere definito in maniera differente. In questo saggio usiamo il termine grosso modo per indicare l’avere ragioni a favore o contro la credenza in una certa proposizione (per un’introduzione alle diverse teorie sulla giustificazione si veda Volpe 2015). sono nozioni profondamente diverse tra loro. In questo paragrafo tracceremo quattro distinzioni basilari utili a evitare i facili fraintendimenti sulla verità che spesso si sentono nelle discussioni pubbliche o nella letteratura non specialistica. Molti di questi fraintendimenti derivano da una confusione tra i concetti di verità, credenza e giustificazione e danno origine a posizioni ingenue di relativismo. Queste distinzioni ci permetteranno anche di spiegare perché non vi sia una strada facile per sostenere tesi relativiste sulla verità. Tesi di questo tipo sono infatti molto controverse e complesse, e richiedono motivazioni teoriche tutt’altro che banali per essere sostenute.
Il primo fraintendimento consiste nell’identificare erroneamente verità e credenza. In primo luogo, verità e credenza non possono essere identificate perché, banalmente, vi possono essere credenze false – ovvero, credenze che hanno come oggetto proposizioni false. In secondo luogo, ciò che è vero deve essere tenuto distinto da credenza vera. E questo è importante per chiarire quale sia l’ordine di spiegazione tra ciò che è vero e credenza vera. Dato che i portatori primari di verità sono le proposizioni e solo in secondo luogo le credenze, ne segue che una credenza – ad esempio, la credenza che la Terra ruoti intorno al Sole – è vera perché è vera la proposizione espressa dalla nostra credenza, ovvero {la Terra ruota intorno al Sole} , e non viceversa. In terzo luogo, almeno per molte questioni empiriche di cui si occupa la scienza, è come stanno le cose nel mondo, a differenza del mero credere come stiano, che spiega la verità delle proposizioni. Avere la credenza che la Terra ruoti intorno al Sole non spiega perché questa credenza sia vera. Piuttosto è perché il sistema solare è configurato in un certo modo in base a certe leggi fisiche che la proposizione {la Terra ruota intorno al Sole} è vera; e ciò spiega, di conseguenza, anche la verità della nostra credenza che la Terra ruoti intorno al Sole.
Il secondo fraintendimento ha a che fare con il confondere verità con credenza giustificata. Per quanto una credenza possa essere sorretta da ragioni solide, è sempre possibile sbagliare. Un caso noto di ciò ci è fornito dalla teoria geocentrica di Tycho Brahe che fu ritenuta vera anche dopo la proposta copernicana perché era più efficace nelle previsioni astronomiche. Si noti, però, che la giustificazione della credenza nella teoria di Brahe non era del tipo speciale richiesto dalla teoria epistemica della verità: la teoria di Brahe non era superasseribile, perché prove empiriche successive portarono al suo abbandono. Anche se ci volle diverso tempo, la teoria eliocentrica prevalse infine su quella geocentrica per capacità predittiva ed esplicativa. In quel periodo, nella seconda metà del XVI secolo, la credenza che il Sole ruotasse intorno alla Terra aveva quindi delle buone giustificazioni scientifiche nonostante fosse falsa (si veda Kuhn 1970, cap. 11).
Passiamo ora al terzo fraintendimento secondo cui la verità coincide con l’accordo. Anche se un’intera comunità scientifica concorda nel credere qualcosa, ciò non implica di per sé la verità di ciò su cui si concorda. Ritornando all’esempio precedente, per molti secoli gli uomini hanno creduto che il Sole si muovesse intorno alla Terra e, solo grazie a sofisticate considerazioni, alcuni iniziarono a dubitare del geocentrismo (come Aristarco da Samo nel III secolo a.C.). Nonostante questa eccezionale convergenza di opinioni nel corso dei secoli passati, la proposizione che il Sole si muove intorno alla Terra è falsa. Si noti anche che dal punto di vista coerentista non segue che la credenza nel geocentrismo fosse vera semplicemente perché vi era accordo, infatti l’insieme di proposizioni credute in passato non costituiva un insieme di proposizioni massimamente coerente, dal momento che fu ampliato con ulteriori proposizioni accettate nel corso della ricerca scientifica (in particolare con ulteriori dati sul moto degli astri).
Infine, la verità viene spesso fraintesa con la certezza. Analogamente al punto precedente sulla giustificazione, la proprietà di una credenza di essere certa non coincide con la proprietà di essere vera. Ci sono due sensi in cui una credenza può dirsi certa: uno psicologico e uno epistemico3EPISTEMICO – Relativo a conoscenza o giustificazione.. Si è certi in senso psicologico quando si ha una convinzione molto forte circa la verità della proposizione creduta. In questa accezione di certezza, nel mondo greco antico pressoché tutti erano certi che ci fossero gli dei. È palese che questo senso di certezza non abbia alcuna implicazione sulla verità di ciò che si crede. In senso epistemico, invece, si è certi quando si possiede una giustificazione talmente forte da garantire la verità della proposizione creduta. In questa accezione di certezza l’essere certi della verità di una proposizione implica che la proposizione sia vera, ma non viceversa, dato che possono esserci verità di cui nessuno è stato né sarà mai epistemicamente certo. Ad esempio, ci sono proposizioni vere che vertono sul passato che però non possono, presumibilmente, essere conosciute. Si pensi al numero di starnuti fatti da Socrate durante la sua vita e si assuma che tale numero sia quattromila: la proposizione che Socrate ha starnutito quattromila volte nel corso della sua vita sarebbe quindi vera. Tuttavia, dato che non potremo mai avere un accesso epistemico adeguato a tale informazione, non potremo mai essere epistemicamente certi di alcunché in relazione al numero degli starnuti di Socrate. Cartesio riteneva si potessero acquisire credenze con questo grado di certezza, ma nella filosofia contemporanea l’idea che le nostre credenze (soprattutto in ambito scientifico) possano diventare epistemicamente certe è una tesi molto poco popolare. Infatti, la maggioranza dei filosofi contemporanei abbraccia una qualche forma di fallibilismo: tutte le nostre credenze sono fallibili e passibili di essere abbandonate alla luce di nuove prove (le radici del fallibilismo risalgono a Hume 1748, §IV).
Vogliamo ora mostrare come questi quattro punti ci aiutino a non cadere in facili tesi relativiste sulla verità – tesi illustrate da luoghi comuni come “questo è vero per te”, o “ognuno ha la propria verità”, o, ancora, “non esiste un’unica Verità ma tante verità”. L’idea che vi siano streghe è falsa relativamente alle credenze dei (molti, sperabilmente) cittadini italiani del XXI secolo, ma è vera, supponiamo, relativamente a un inquisitore spagnolo del XVI secolo. La tesi del relativismo sulla verità (nota anche come relativismo aletico), che spesso viene espressa in diversi contesti, può essere intesa in (almeno) due modi: come relativismo ingenuo che sostiene che la verità di ogni proposizione è relativa alle credenze di un soggetto; oppure come relativismo moderato secondo cui la verità di una certa categoria di proposizioni (come quelle sul gusto) è relativa alle credenze di un soggetto. Sia il relativismo ingenuo che quello moderato sono tesi controverse; tuttavia il primo è particolarmente problematico e difficile da sostenere.
Un primo argomento spesso formulato a favore del relativismo ingenuo parte dalla posizione fallibilista. Le nostre concezioni e teorie sulla realtà sono frutto della creazione umana e sono quindi fallibili. Noi ora crediamo che non vi siano streghe, ma non possiamo escluderlo con certezza – magari si sono nascoste dopo il XVI secolo e nessuno si è più imbattuto in loro. Il relativista direbbe quindi che è vero per noi che non esistono le streghe, ma che non possiamo affermarlo per chi ci credeva (o ci crede tuttora), perché è possibile che fossero i nostri antenati ad avere ragione e non noi. L’idea sottostante a queste considerazioni è che se non vi sono certezze, allora non vi sono verità assolute, e quindi ogni verità è relativa alle opinioni di un soggetto (o di una comunità). L’argomento è fallace in due punti. In primo luogo, l’argomento si basa sul principio secondo il quale la verità (assoluta) implica certezza, ma, come abbiamo detto parlando del quarto fraintendimento sulla verità, questa non implica affatto certezza. Dal fatto che, supponiamo, non possiamo essere certi che le streghe non esistano non segue che non sia vero che le streghe non esistono. In secondo luogo, anche se ogni verità fosse relativa, da ciò non seguirebbe che lo sia relativamente a ogni credenza. Questa conclusione seguirebbe se identificassimo verità e credenza, ma dato che abbiamo convenuto che verità e credenza sono nozioni distinte, questa identificazione è infondata. Potrebbe essere, ad esempio, che ogni verità sia conoscibile: alcuni filosofi (tra cui Dummett 1991, Putnam 1981 e Chalmers 2012) hanno sostenuto che se avessimo tempo e risorse sufficienti, ogni verità potrebbe essere conosciuta. Secondo questa tesi, verità e credenza formata in condizioni ideali convergerebbero. Anche ammettendo una tesi epistemicamente così ottimista, tutte le verità coinciderebbero con il contenuto solo di alcune credenze, cioè quelle formate in condizioni ideali, mentre tutte le restanti opinioni (quelle che normalmente ci formiamo in condizioni meno che ideali) non implicherebbero di per sé alcuna verità. Naturalmente ci sono modi più deboli di leggere l’uso di espressioni come “questo è vero per te”, o “ognuno ha la propria verità”, o, ancora, “non esiste un’unica Verità ma tante verità”. Questi usi potrebbero infatti solo voler dire che ognuno ha le proprie ragioni, che ci si trova d’accordo nell’essere in disaccordo e che non vi è una giustificazione assoluta per credere qualcosa. Ovviamente non abbiamo nulla contro questo modo di intendere tali usi. Al contrario crediamo che le ragioni che abbiamo appena dato, per contrastare la lettura relativista più radicale, mostrino che queste letture siano le sole che permettono di interpretare in maniera filosoficamente plausibile chi usa queste espressioni. Temiamo però che a volte, se non spesso, questi usi siano fatti con l’intenzione di esprimere la lettura relativista più forte, espressione del relativismo ingenuo – una lettura che crediamo non possa che essere il frutto di confusioni concettuali.
Una seconda motivazione per essere tentati dal relativismo ingenuo è che le nostre concezioni della realtà (scientifiche o del senso comune) sono sempre espresse (tramite il pensiero o il linguaggio) attraverso qualche concettualizzazione. In questo senso, la verità di ogni proposizione si può dire relativa a una concettualizzazione. Ma questo fatto non rappresenta di per sé nulla di particolarmente controverso. Vediamo il perché con un esempio. Si immagini un gruppo di persone, geograficamente piuttosto isolato da noi (chiamiamoli i Bini) che invece di utilizzare un sistema numerico decimale utilizza un sistema binario – magari per ragioni di convenienza nel comunicare con i computer. Così come noi non siamo abituati a ragionare utilizzando un sistema numerico binario, allo stesso modo i Bini non sono abituati a ragionare utilizzando un sistema decimale. Ciascuno è quindi estraneo ai metodi di ragionamento dell’altro. Se a noi e ai Bini venisse chiesto di contare quante persone ci sono in una stanza (assumendo che il concetto di persona sia condiviso), noi risponderemo dicendo che ci sono 35 persone nella stanza, mentre uno dei Bini risponderebbe che ci sono 100011 persone nella stanza. Chiaramente abbiamo modi molto diversi dai Bini di concettualizzare il numero di persone nella stanza. Ma dal momento che c’è una procedura ben precisa che ci consente di tradurre i numeri decimali in numeri binari, e viceversa, c’è un senso profondo in cui noi e i Bini concordiamo su quante persone ci siano nella stanza. La tesi di relatività a uno schema concettuale non implica quindi nulla di particolarmente radicale, come invece vorrebbe il relativista ingenuo. L’esempio che abbiamo fornito della comunità dei Bini mostra che possiamo avere relatività a uno schema concettuale, per quando riguarda la questione di quanti oggetti ci sono, senza avere alcuna conseguenza anti-assolutistica sulla descrizione del mondo: la realtà può essere descritta in modi diversi che sono fra loro inter-traducibili e che quindi rappresentano la stessa cosa. La relatività a uno schema concettuale non implica neppure la dipendenza della realtà dalle nostre concettualizzazioni. Vediamo perché con un esempio. Come fa notare Diego Marconi (Marconi 2007, pp. 64-65), un conto è dire che la comprensione della proposizione che il sale è cloruro di sodio richieda il concetto di molecola, un altro è dire che la molecola di cloruro di sodio è iniziata a esistere nella storia dell’universo solo quando abbiamo introdotto nella teoria chimica moderna il concetto di molecola. Quest’ultima tesi è molto problematica e richiede, se sostenuta, argomenti di filosofia della scienza e metafisica piuttosto sofisticati perché possa avere un qualche mordente. Notoriamente, Bruno Latour (Latour 2000) ha provato a sostenere una tesi simile con considerazioni di carattere storico e di sociologia della scienza.
Ovviamente, quanto detto non confuta il relativismo aletico ma vuole mostrare che per difendere tale dottrina occorre un lavoro filosofico serio. È infatti innegabile che la tesi del relativismo aletico, nella sua accezione moderata difesa, tra gli altri, dal filosofo americano John MacFarlane (MacFarlane 2014), abbia una certa plausibilità negli ambiti meno oggettivi come le questioni di gusto – ad esempio, opinioni personali sulla bontà del cibo – e (anche se in misura più controversa) su altre questioni estetiche più complesse riguardanti l’arte o su questioni di ambito morale. Se consideriamo per un momento il caso dei giudizi di gusto sul cibo, risulta plausibile sostenere che la verità della proposizione che il sushi è buono dipende da chi sta giudicando il sushi e dalle sue reazioni (o disposizioni a reagire) al gusto del cibo. Dato che queste reazioni presentano una certa variabilità, la verità della proposizione varia di conseguenza. Queste considerazioni sono però strettamente legate al fatto che, in ambiti come il gusto, la dipendenza dai soggetti di alcune proprietà – come l’essere buono di un certo cibo – sembri essere un principio plausibile.
Detto questo, ci preme chiarire come la tesi della relatività a uno schema concettuale (tesi valida per ogni ricerca scientifica, in quanto condotta all’interno di paradigmi e idealizzazioni) non debba essere scambiata per la tesi, più controversa, del relativismo sulla verità. Dato che ci concentreremo sulle teorie scientifiche, è importante chiarire che la fallibilità delle teorie scientifiche – le quali nella storia della scienza sono state scalzate da teorie sempre più accurate, come plausibilmente accadrà in futuro – non implica in nessun modo che la verità di queste teorie sia relativa. Al contrario, il fallibilismo è pienamente compatibile con la tesi di oggettività del campo di indagine scientifico, insieme a una concezione corrispondentista della verità secondo cui, nel corso del tempo, l’indagine scientifica, attraverso congetture e confutazioni, progredisce aumentando la sua capacità descrittiva della realtà – non è un caso che proprio Karl Popper, uno dei più importanti fautori del fallibilismo, sostenesse una concezione oggettivista della verità scientifica (Popper 1969). Seguendo il lavoro recente di alcuni filosofi della scienza, si può dire cheil progresso delle teorie scientifiche può essere espresso dall’incremento di verisimilitudine (approssimazione alla verità) delle teorie scientifiche (per un’interessante discussione di questo punto in relazione alla pratica medica si veda Murri 1905; per un’introduzione avanzata si veda Schurz 2013; per un’introduzione generale alla filosofia della scienza si veda Campaner, Galavotti 2017).