POSTFAZIONE

Il messaggio di Mireille Delmas-Marty per un diritto umano e planetario

di Francesco Palazzo

Prima di assolvere al compito che mi è stato dato, voglio esprimere un grande plauso all’iniziativa di chi ha voluto tradurre in italiano questo prezioso volumetto di Mireille Delmas-Marty. In queste poche pagine Mireille Delmas-Marty condensa la riflessione di decenni: renderla facilmente accessibile nel nostro Paese è opera meritoria. Mireille Delmas-Marty è largamente conosciuta qui da noi, e personalmente mi annovero orgogliosamente tra i primi amici italiani di Mireille, da quando agli inizi degli anni Ottanta organizzammo non poche occasioni d’incontro a Firenze (proprio quella Firenze che è culla dell’Umanesimo tanto presente nel suo pensiero). E anche vero, però, che una certa tradizione degli studi giuridici qui in Italia non è sempre propensa a gettare lo sguardo al di là dell’orizzonte più strettamente normativo, come invece fanno le opere di Mireille Delmas-Marty soprattutto dopo la sua chiamata al Collège de France. Ebbene, questa caratteristica del suo pensiero, unita oggi allo stile tanto rapido quanto incisivo e nitidissimo di questo libretto, fanno invece sì che il suo messaggio debba essere destinato a varcare il duplice confine geografico e disciplinare, raggiungendo lettori non giuristi di Paesi diversi da quella Francia, che pure è tanto presente nella cifra fondamentale di quest’opera.
Come è consueto di molte opere di Mireille Delmas-Marty, anche le pagine di questo libriccino, di questo più che di altre pur recenti sue opere, hanno l’intonazione e la tensione di un vero e proprio messaggio ispirato a una fiducia nell’uomo, che se non attinge alla fede certamente si apre alla speranza. Un primo messaggio è forse implicito ma è chiaramente individuabile nel monito indirizzato principalmente alla comunità dei giuristi, richiamandoli a ben intendere qual è la vera sostanza del diritto. Il diritto e i giuristi sono i demiurghi che operano per modificare il mondo: il diritto imprime alle cose del mondo un assetto che in sua assenza sarebbe diverso. Questa è la forza del diritto: ma la forza ha bisogno di un’ispirazione di giustizia, che appunto la giustifichi. Seguendo le orme di Blaise Pascal, tanto caro a Mireille, questo obiettivo di giustizia s’identifica in fondo con la pace, poiché la forza del diritto senza un’ispirazione di giustizia condurrebbe all’autodistruzione dell’umanità. Ecco il “pensiero” del fisico-filosofo che con tanta potente drammaticità seppe vedere il groviglio di miseria e grandezza dell’uomo: «Non potendo fare in modo che sia forza obbedire alla giustizia, si fa in modo che sia giusto obbedire alla forza. Non potendo fortificare la giustizia, si è giustificata la forza affinché la giustizia e la forza fossero insieme e affinché fosse la pace, che è il bene sovrano» (Pascal 1669).
Ma, come dicevo poc’anzi, il messaggio di questo volumetto va ben oltre la cerchia dei giuristi, pur colti e pensosi, per indirizzarsi a tutti coloro che abbiano a cuore le sorti dell’umanità intera: questo è il respiro delle meditazioni visionarie di Mireille Delmas-Marty. Che è sempre stata paladina di un sapere unitario, di una cultura capace delle più ardite contaminazioni, nella consapevolezza che conoscenza ed etica s’intrecciano nella sostanziale unità dell’essere umano.

È indubbio che la mondializzazione costituisce il carattere più vistoso del tempo presente, anche se questo processo ha origini molto lontane, almeno dall’inizio dell’era moderna. Nell’ultimo secolo hanno subìto una fortissima accelerazione i vettori della mondializzazione. Penso che non si sbagli individuando i vettori principali della mondializzazione nell’economia e nella scienza/tecnologia: né l’una né l’altra hanno confini; l’una e l’altra hanno profondamente inciso sul modo di essere materiale e spirituale dell’uomo. Forse come tutte le cose umane, anche quei due vettori sono carichi – per rimanere fedeli a Pascal, ma anche a un’infinità di altri pensatori – di miserie e di grandezze. L’economia del capitalismo maturo occidentale e l’enorme avanzata della scienza/tecnologia hanno diffuso tanto benessere nell’umanità, anche se hanno contribuito ad accentuare differenze scandalose tra le aree e le popolazioni del pianeta. L’uomo del secolo scorso, dopo la Seconda guerra mondiale, ha maturato un senso di onnipotenza dinanzi a una ricchezza che si moltiplica senza la fatica del lavoro, dinanzi a una scienza/tecnologia in grado di fronteggiare tanti dei mali endemici dell’umanità, dinanzi a una conoscenza che schiude orizzonti prima sconosciuti dell’infinitamente piccolo e dello straordinariamente grande. Ma poi i grandi vettori della mondializzazione hanno cominciato a presentare il conto.
Si è diffuso come un senso di fragilità. Le ricorrenti crisi economiche hanno mostrato quanto è facile la dissoluzione della ricchezza, come la miseria può dilagare rapidamente nelle plaghe sociali più deboli o meno fortunate, come un’unica operazione finanziaria possa creare onde d’urto nefaste sull’intero pianeta. La scienza/tecnologia non finisce di dilatare le zone oscure di “ignoranza” in misura più che proporzionale alle conoscenze via via acquisite; e soprattutto non riesce a trovare rimedi adeguati ai fenomeni planetari di compromissione dell’ambiente e delle stesse possibilità di sopravvivenza dell’umanità. Il senso di fragilità si è rapidamente trasformato nel sentimento di paura: una paura esistenziale, a oggetto per così dire tanto multiplo quanto, alla fine, indefinito. La paura è sempre una pessima consigliera. La paura conduce alla necessità psicologica di identificare un nemico, sul quale – letteralmente – scaricare il proprio senso di ansia e angoscia. La paura finisce così per innescare il meccanismo del capro espiatorio (come esattamente nota Mireille Delmas-Marty): e il capro espiatorio è uno strumento fortemente lacerante la solidarietà sociale, mina dalle sue fondamenta psichiche il tessuto sociale, riattizzando l’hobbesiano homo homini lupus che credevamo neutralizzato una volta per tutte dal pensiero umanistico dell’Illuminismo. Sul piano interstatale la paura produce il sovranismo, che con il suo miope egoismo nega l’evidenza che la possibilità di salvamento o è perseguita da tutti o non ci sarà. Sul piano economico-scientifico, la paura produce il principio di precauzione che, se non maneggiato con cura, risulta una formula incantatoria più che uno strumento per tenere in equilibrio l’innovazione/libertà da un lato e la conservazione/sicurezza dall’altro.

A proposito di Illuminismo: l’eredità del pensiero razionale, che aveva trovato le sue manifestazioni più trionfali nell’homo oeconomicus del capitalismo e nella sconfinata pervasività della scienza (ad esempio, con la conversione della psiche in cervello), sembra oggi dispersa dinanzi a un rigurgito di “sentimentalismo”. La rivalutazione dei sentimenti, delle emozioni, delle passioni, della sfera insondabile dell’inconscio sembrano oggi il migliore antidoto all’incapacità della ragione di costituire una valida bussola di orientamento nella temperie attuale: si affaccia il rischio di un nuovo unilateralismo che si appelli alla “poesia” per la soluzione di ogni problema del vivere sociale. E proprio i giuristi sanno bene quali sono i rischi insiti in questo eccesso di sentimentalismo. La sana e disincantata consapevolezza dei limiti dell’umana ragione non significa abbandono incontrollato al sentimentalismo.
È in questo scenario di fondo che si leva il messaggio di Mireille Delmas-Marty, che prende forma l’immagine complessa della bussola dei possibili secondo un movimento ascensionale che non pietrifichi la soluzione in una rigidità destinata a essere travolta dagli inarrestabili venti del mondo: una bussola, dunque, senza polo magnetico.
Ebbene, se dovessi dire quale mi pare il carattere fondamentale di questo messaggio, direi che è la sua intonazione etica: un’etica indubbiamente civile e nutrita di razionalità lucidissima, ma anche sostenuta da una profonda convinzione di speranza e di fiducia nella capacità dell’uomo di non perdere la sua grandezza, che noi giuristi chiamiamo poi dignità (e sovviene qui un altro nume tutelare del pensiero di Mireille: quel Pico della Mirandola, autore nella Firenze dei Medici del De hominis dignitate).
Coessenziale all’eticità del messaggio è il ruolo di una categoria spesso in ombra nell’attuale discorso pubblico: quella del dovere. Certamente, noi siamo stati giustamente educati a coltivare la grande pianta dei diritti, con la loro carica di universalità, con la loro discendenza diretta dalla dignità, con la loro capacità di progresso nel processo di civilizzazione. E ancora tanto resta da fare nell’attuazione e nella tutela dei diritti. Ma oggi non è più possibile ignorare la vocazione per così dire assolutistica, quasi onnivora dei diritti e gli scontri che essi innescano non sempre governabili con adeguati bilanciamenti: i diritti non perdono certo la loro civile sacertà ma non possono andare più disgiunti dai doveri e dalla responsabilità. Uno dei fronti su cui si gioca la scommessa di salvataggio del pianeta è l’affermazione di doveri senza contropartita di diritti, senza reciprocità: doveri verso le componenti dell’ecosistema, verso gli animali, verso le future generazioni. Più in generale, la necessità di recuperare una dimensione del dovere, che significa in fondo uno spostamento dell’asse della nostra esistenza dal proprio io all’altro: in breve, la solidarietà come imperativo etico per non compromettere il processo di civilizzazione alimentato – pur tra cadute, regressi e soste – dallo slancio vitale dell’essere umano.

Il volume si conclude con Post-scriptum, che costituisce per così dire il distillato plastico della lunga riflessione di Mireille sul ruolo del diritto e, dunque, necessariamente sull’uomo e sull’umanità: una civiltà, quella in particolare del mondo occidentale, che oggi sembra scossa dalle sue fondamenta, che sembra priva di un indirizzo consapevole che non sia quello di un frenetico cupio dissolvi. Il Post-scriptum propone, in pochissime dense pagine, una complessa costruzione immaginifica che può aiutarci a non perdere la speranza. Alla base si trova una rosa di venti che richiamano l’idea delle forze che perennemente plasmano il nostro destino, in uno scontro e in un equilibrio/squilibrio sempre mutevoli: i venti principali della libertà e della sicurezza, della cooperazione e della competizione; e i venti secondari – “d’entre les vents” – dell’integrazione e dell’esclusione, dell’innovazione e della conservazione. Alla mercé di questi venti oppositivi, ma intorno a un ideale filo a piombo che s’inserisce al centro della rosa dei venti, si svolge verso l’alto la spirale animata dallo slancio vitale dell’uomo lungo il processo di civilizzazione. Questa verticalità della composizione plastica corrisponde all’umanismo di cui anche, o forse soprattutto, il diritto si deve fare cari- co attraverso le sue istituzioni: ecco l’“umanismo giuridico”, o meglio gli “umanismi giuridici” perché non esiste e non deve esistere un’unica tavola monocromatica di valori indiscutibili, come da anni ci ammonisce il pensiero di questa straordinaria personalità di studiosa. Vorrei a questo punto aprire un piccolo ma fondamentale inciso. Certamente, compito del diritto è contrastare, resistere alle tante esperienze di disumanizzazione che la realtà ci esibisce: crimini contro l’umanità, soggetti pericolosi, manipolazioni dell’uomo, ecc. Ma, in un rapido passaggio, Mireille sfiora l’eterna domanda se il disumano faccia parte dell’umano: ebbene io credo fermamente di sì. Ma questa ambivalenza, in cui in fondo risiede tutta la “verità” del pensiero cristiano, è proprio ciò che rende un impegno l’esistenza e che, in fondo, rende l’uomo – col suo eterno conflitto tra bene e male – l’essere superiore di tutto il creato. Grandi sono le implicazioni di questa convinzione per il diritto penale, che per definizione ha a che fare col male e con la sua intrinseca disumanità, anche in una visione rigorosamente laica della “questione criminale”.

Chiusa la parentesi e tornando ora alla composizione plastica della “bussola dei possibili”, il discorso non può però arrestarsi qui perché occorre dare un qualche contenuto all’umanismo giuridico, altrimenti il messaggio sarebbe vuoto o comunque inefficace e incompleto. Ecco, allora, che mi paiono due i pilastri fondanti dell’umanismo. Da un lato il senso di solidarietà, dall’altro il principio di non-determinazione. La solidarietà non è solo un imperativo etico: lo diventa certo, ma affonda le sue radici – quasi antropologicamente – nella socialità dell’essere umano, che senza l’“altro” riduce il proprio orizzonte di vita alla pura sopravvivenza biologica. Oggi, poi, è proprio l’avvenuta mondializzazione a fornirci la consapevolezza che le sorti degli uomini e dei popoli, dinanzi per esempio ai mutamenti climatici, alle grandi pandemie, alle scoperte della scienza, al mercato planetario, sono tra di loro legate in quella che Mireille Delmas-Marty chiama la “comunità di destino”.
Il principio di non-determinazione ha, questo sì, un connotato marcatamente etico-ideale: non ancora dissolto dalle neuroscienze, esso è la radice del senso della libertà e della responsabilità, quali criteri regolatori irrinunciabili dell’esistenza umana: davvero senza libertà e responsabilità non può esservi nessun umanismo (giuridico). La responsabilità è una categoria in crescita, per così dire, sospinta verso più ampi confini dalla mondializzazione. Crescono i soggetti della responsabilità: dai capi di Stato, agli Stati stessi, alle imprese e altri soggetti economici. Il diritto internazionale e il diritto interno vanno ormai da tempo in questa direzione. E crescono anche i soggetti nei cui confronti si afferma la responsabilità: i popoli prima di tutto, ma anche le generazioni future, l’equilibrio ambientale e gli animali. La mondializzazione ha creato un novero di “beni giuridici” contrassegnati dalla dimensione – spaziale e temporale – planetaria.
Chi avesse l’impressione che la costruzione plastica della bussola dei possibili sia qualcosa di chiuso, di bloccato, quasi un modello rigido proposto agli attori della vita sociale secondo uno schema dell’aut aut, sarebbe in grave errore. La bussola dei possibili è una composizione in perenne movimento e, soprattutto, è uno schema cognitivo e assiologico in cui pluralismo e unità si coniugano nell’idea forse più propria di Mireille, quella del pluralisme ordonné. Nel pluralismo ordinato ciascuno gioca la sua parte e mantiene la sua individualità, ma tutti i “particolari” si coordinano nella fondamentale unità di destino: la sopravvivenza del pluralismo ordinato implica che ogni particolare sia capace di adattarsi all’unità, ma anche che l’unità possa rispettare l’individualità di ciascuno. Mai come in questo momento della storia dell’Europa, ma anche del mondo, è essenziale il principio del pluralismo ordinato. Ora, a me pare che il metodo del pluralismo ordinato sia certamente un principio politico di sopravvivenza degli Stati e dei popoli, sia certamente un valore etico in quanto impone di ispirare il proprio comportamento a tolleranza. Ma ho anche l’impressione che il pluralismo ordinato sia, ancor prima e di più, quasi una categoria esistenziale dell’essere umano e, pertanto, l’essenza stessa dell’umanismo. L’uomo si rapporta col mondo secondo il paradigma del pluralismo ordinato: egli è ineluttabilmente a contatto con una realtà fatta di “particolari”, ma non riesce a comprendere quella realtà e ad agire conseguentemente in essa se non alla condizione di saper ordinare i vari frammenti particolari in un’unità di senso: altrimenti sarebbe sopraffatto dal caos. In questo modo funziona, ad esempio, la formazione del linguaggio e la costruzione dei concetti.

La forza del messaggio contenuto in questo libro è inversamente proporzionale all’esiguità numerica delle sue pagine. Così come la dimensione intellettuale di Mireille Delmas-Marty si staglia imponente a onta della sua silhouette così minuta, quasi apparentemente fragile. Il suo sguardo si spinge ben al di là degli orizzonti del diritto penale, ben al di là dello stesso universo giuridico; va a toccare gli estremi confini delle scienze umane e sociali, poiché Mireille Delmas-Marty è sicuramente annoverabile tra i grandi interpreti del secolo XX e di questo XXI. Ma il segreto del suo successo non sta solo nell’acutezza con cui ella sa dirigere lo sguardo nella complessità planetaria del dopoguerra. Sta anche, e forse soprattutto, nell’unire alla decifrazione di questo difficile spartito del mondo la formulazione di un messaggio, l’indicazione di una via. Un messaggio che non s’ispira a una presunta onnipotenza del diritto, che non ha l’intonazione solenne di una meta escatologica, lontana, fuori di noi, ma che contiene piuttosto l’esortazione convincente a guardare ciascuno – persona o ente, Stato od organizzazione internazionale – dentro di sé e intorno a sé per ritrovare la fiducia verso sé stessi e verso gli altri. E a non perdere la speranza giova anche quel certo carattere ludico insito nella bussola dei possibili, perché «même en état d’urgence, il est vital que la joie demeure!».

Firenze, aprile 2020