1. RESISTERE ALLA DISUMANIZZAZIONE

Resistere alla disumanizzazione non è facile poiché, in materia, la creatività dell’uomo è senza limite. Nel corso del seminario ci siamo pertanto posti la seguente domanda: «Il disumano fa parte dell’umano?». Non siamo riusciti a darci una risposta, cosa non certo sorprendente se consideriamo la varietà delle pratiche di disumanizzazione che offuscano la nostra ricerca.

1.1. Le varie pratiche di disumanizzazione

C’è in primo luogo il concetto de “l’umano incompiuto”. Tralasciando le discussioni e gli interrogativi degli umanisti del Rinascimento, come quello di Valladolid: «Gli indiani: sono essi esseri umani?», guardiamo direttamente al XIX secolo e alla pretesa tesi scientifica ripresa dalla scuola positivista italiana, secondo cui alcuni esseri umani sarebbero rimasti indietro nel pro- cesso evolutivo. Lombroso, ad esempio, fonda l’atavismo di certe forme di criminalità sulla continuità tra l’animale e l’uomo, prefigurando le teorie eugenetiche dell’inizio del XX secolo e la figura del tipo anormale, un mostro descritto come uomo incompiuto, una commistione di umano e non umano, che legittima – a suo dire – il ricorso a una serie di misure drastiche, come la sterilizzazione forzata.
La disumanizzazione, tuttavia, non si esaurisce qui. Il XX secolo è tragicamente caratterizzato dalle politiche di esclusione praticate dai regimi autoritari. Questi hanno, in un primo tempo, utilizzato strumentalmente i lavori scientifici per poi smarcarsene e, come è noto, promuovere apertamente l’esclusione di determinati gruppi umani, arrivando fino al genocidio. Tali pratiche discriminatorie saranno qualificate, a partire dalle sentenze del tribunale di Norimberga, come «crimini contro l’umanità». La nozione si espanderà poi progressivamente, senza tuttavia riuscire a impedire il manifestarsi, perfino nel XXI secolo, di nuove forme di disumanizzazione, quali quelle praticate dallo Stato “Giano bifronte”: una securitaria e l’altra liberale, o addirittura ultra-liberale. Un po’ come se la mondializzazione sostituisse il mito dell’umanesimo giuridico con altri due miti, che in effetti possono coesistere: quello della sicurezza totale e quello del tutto mercato.
Il mito securitario consente di istituire, in nome di un ipotetico rischio zero, una polizia del sospetto e del profiling, e una giustizia predittiva che sostituisce la responsabilità con la pericolosità e la punizione con la neutralizzazione; predispone la tracciabilità delle popolazioni a rischio e promuove il concetto, assai riduttivo, di “deradicalizzazione” per contrastare l’attrazione jihadista.

Si passa da un’antropologia umanistica a un’antropologia di marca determinista che rinuncia al libero arbitrio e fa dell’esclusione il principio ispiratore di ogni intervento. Questo vale per i terroristi qualificati come “combattenti nemici illegali”, quindi fuori dal diritto, poiché non sono né criminali né prigionieri di guerra, ma anche per gli autori di reato, di cui si teme la recidiva. Si arriva a una disumanizzazione di questo essere umano etichettato come “pericoloso” e da eliminare come un animale aggressivo. In un contesto del genere, il mito ultra-liberista del mercato autoregolamentato potrebbe sembrare meno inquietante. Anche quest’ultimo però finisce per assimilare l’essere umano a una merce e il lavoratore a una risorsa: le tutele del diritto del lavoro divengono un ostacolo agli investimenti – basti rileggere, al proposito, le raccomandazioni della Banca Mondiale di alcuni anni fa. Si porta così a compimento storico la “reificazione” dell’umano avviatasi con la sua mercificazione.
Con l’umano pienamente reificato, la prospettiva è cambiata. Alcune nuove tecnologie introducono l’idea dell’umano “fabbricato”. Non si tratta di distruzione, come nel genocidio, né di sofferenza o di umiliazione, come nella tortura, ma di una forma solo apparentemente positiva di fabbricazione della vita. Il codice penale francese lo qualifica comunque come “crimine contro la specie umana” quando mira a organizzare la selezione delle persone e – supponendo che un giorno sia possibile – la clonazione riproduttiva, con lo scopo di far nascere un bambino geneticamente identico a un’altra persona, vivente o deceduta. In altre parole, si vorrebbe proteggere la specie umana, separandola tuttavia dall’umanità.

Furori sacri e radicalizzazione: le tre zone del cervello
Il ricorso allo Stato di diritto viene spesso strumentalizzato per giustificare modi di governare fondati sulla paura. Di qui la necessità di rinnovare la metodologia, includendovi ricerche su quei comportamenti (individuali e di gruppo, compresi quelli degli Stati) che fatichiamo a spiegare razionalmente, quali le contrazioni identitarie o le derive securitarie. Li chiamiamo “furori sacri”: “furori” perché derivano da riflessi arcaici di paura e sopravvivenza, “sacri” in quanto questi comportamenti attengono a divieti legati all’identità profonda di ogni essere. Per essere efficace, tale rinnovamento deve puntare su una grande interdisciplinarietà includendo, oltre alle scienze umane (diritto, storia, antropologia, sociologia, economia…), anche le ricerche sulle neuroscienze cognitive e sociali, in particolare la considerazione dei modelli di funzionamento del cervello umano rilevato dalla risonanza magnetica cerebrale. Di fronte alla persistenza di tali “furori sacri”, si deve tornare alla Dichiarazione universale dei diritti umani, che stabilisce che gli esseri umani sono «dotati di ragione e di coscienza» e trarre le debite conclusioni relativamente all’aggiunta di questo ultimo termine (nel senso di coscienza morale), inserito all’epoca su richiesta del delegato cinese.
Nell’era dell’Antropocene, l’umanità in quanto tale dovrebbe anche essere in grado di influenzare significativamente il proprio avvenire. Dotata di ragione, essa può, per comprendere le sue crisi, mobilitare sinergicamente tutti i saperi disponibili, abbattendo le barriere che li separano. Dotata di coscienza, essa può migliorare non solo le sue capacità cognitive, ma anche la conoscenza delle sue pulsioni – in particolare quando le emozioni provocano degli automatismi del pensiero – in modo da configurare dei processi di resistenza alle passioni identitarie.
Abbiamo forse sopravvalutato l’importanza dei ragionamenti logici e sottovalutato, nonostante la persistenza dei “furori sacri” e di altri comportamenti che sfuggono alla ragione, la rilevanza della vecchia corteccia cerebrale: quella propria dei rettili e dei primi mammiferi, che ognuno di noi conserva dentro di sé. Abbiamo così dimenticato che l’evoluzione delle società, come quella degli individui, non è né continua né lineare. Certo, l’evoluzione della corteccia cerebrale ha portato a un secondo sistema più razionale – detto “algoritmico”, poiché riguarda algoritmi logici – ma ciò non ha eliminato la vecchia corteccia che comanda il primo sistema, detto “euristico” – delle pulsioni e di altri automatismi di pensiero e di azione. Legato al contesto emotivo, individuale e sociale, questo sistema è molto più rapido e, a suo modo, efficace. Ora, la risonanza magnetica cerebrale mostra in tutti gli esseri umani la coesistenza dei due sistemi nonché i loro conflitti potenziali; essa certifica inoltre la presenza di un terzo sistema detto “di controllo”, fondamentale, ma discontinuo, esercitato dalla corteccia prefrontale. È indubbiamente possibile migliorare tale sistema di controllo caso per caso, a condizione che i cittadini imparino a resistere agli automatismi che, sotto il peso delle emozioni, sfuggono alla ragione, e che i dirigenti politici non strumentalizzino tali automatismi, contribuendo invece a educare i cittadini all’autonomia critica (Houdé 2014).

Continua a p. 2 – 1.2. L’irriducibile umano