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Negli ultimi anni, la misura delle distanze si è fatta sempre più precisa e le stime più recenti della costante di Hubble fondate, oltre che sulle osservazioni, anche sui modelli, che descrivono la nascita e l’evoluzione dell’Universo, la pongono entro un intervallo di valori molto più limitato, compreso tra i 67 e i 74 km s–1 Mpc–1. Hubble, del resto, non avrebbe potuto fare di meglio: alla sua epoca, l’ottenimento di ciascuno dei 24 spettri, che costituivano il suo minuscolo campione, gli era costato un tempo di posa dell’ordine di alcune decine di ore. Questo significava che, analogamente a quanto aveva fatto Slipher, aveva dovuto esporre la stessa lastra per diverse notti. Non avrebbe potuto spingersi, quindi, troppo lontano, come sarebbe stato possibile successivamente, né collezionare un numero di spettri che gli garantisse di definire con maggiore accuratezza la sua relazione. Oltre ad avere tutte le distanze sottostimate, le galassie utilizzate da Hubble avevano anche le velocità contaminate dalla presenza di una componente peculiare, dovuta a movimenti indotti dall’effetto gravitazionale, che l’ambiente prossimo esercita su ciascuna galassia. Le velocità peculiari sono dell’ordine di alcune centinaia di chilometri al secondo e quindi il loro effetto perturbativo non era trascurabile sul campione di galassie di Hubble, le cui velocità erano dello stesso ordine di grandezza, e provocava una dispersione enorme dei dati, attorno alla retta che definiva la relazione.
Hubble, seppure con tutti i limiti legati al suo campione, era riuscito comunque a evidenziare la presenza di una relazione lineare tra la velocità e la distanza che non poteva essere interpretata in altro modo, se non come l’effetto dell’espansione dello spazio. Non erano quindi propriamente le galassie a muoversi, ma lo spazio che, espandendosi “sotto di esse”, se le trascinava, per così dire, dietro, come se, con un’analogia bidimensionale (che costituisce un’estrema semplificazione del caso reale), le galassie fossero dei puntini incollati su un pallone, che si sta gonfiando: tanto più lontane si trovano sulla superficie del pallone, tanto maggiore sembrerà la velocità, con cui si stanno allontanando per effetto dell’espansione.
La scoperta di Hubble fu accolta con un grande sollievo da Albert Einstein, perché gli permise di eliminare dal modello di Universo, che aveva formulato nel 1917 (nell’ambito della teoria della relatività generale, che aveva sviluppato e proposto appena un anno prima), la costante che aveva dovuto inserire ad hoc, per contrastare l’effetto della forza di gravità. La costante cosmologica, che lo stesso Einstein avrebbe definito a seguito della scoperta di Hubble, “il più grave errore” della sua vita, aveva perso la sua funzione, perché l’espansione dell’Universo non rendeva più necessaria la sua presenza.
L’espansione, trovata sperimentalmente da Hubble, ma ipotizzata, un paio di anni prima, dall’astronomo gesuita belga Georges Edouard Lemaître (il cui articolo, scritto in francese, non aveva potuto avere la risonanza di quello del collega statunitense), era proprio l’ingrediente fisico necessario a mantenere l’Universo in vita, provocandone, in dipendenza della massa in esso contenuta, un’espansione eterna, oppure un ritorno all’indietro verso un nuovo Big Bang, l’evento che aveva dato origine al tutto e in cui alcuni, tra cui lo stesso Lemaître, che lo aveva chiamato “atomo primigenio”, avevano voluto vedere addirittura l’intervento creativo operato da Dio.
L’ipotesi del Big Bang, formulata dallo stesso Lemaître e ripresa in uno storico lavoro del 1948 a opera dei fisici e cosmologi statunitensi Ralph Alpher e George Gamow,1Gamow volle inserire anche l’eminente fisico tedesco, nonché suo caro amico, Hans Bethe, tra gli autori dell’articolo affinché la sequenza dei cognomi (Alpher, Bethe, Gamow) “ricordasse” i tre tipi fondamentali di radiazioni ionizzanti: α, β e γ. non ebbe un successo immediato poiché molti astronomi la trovarono assurda oltre che sconcertante. Tra di essi era il fisico e astronomo britannico Fred Hoyle (uno degli autori del già citato articolo, del 1957, sulla fusione nucleare nelle stelle, famoso anche per i suoi romanzi fantascientifici), che avrebbe avversato tale ipotesi in tutto l’arco della sua vita. Curiosamente sarebbe stato proprio Hoyle a coniare, in senso spregiativo (nel corso di un’intervista alla BBC del 1949) l’espressione Big Bang, che si sarebbe rivelata, contrariamente alle sue intenzioni, particolarmente felice e di grande effetto mediatico.
Gamow, Alpher e Herman (anch’egli un cosmologo statunitense) avevano mostrato nel 1948 che per effetto del Big Bang si sarebbe generata una radiazione cosmica di fondo, ossia una radiazione uniforme che avrebbe permeato l’intero Cosmo e, analogamente a quanto accadeva alle galassie le cui righe negli spettri si andavano spostando verso il rosso, per effetto dell’espansione, avrebbe diminuito progressivamente la propria frequenza e sarebbe stata osservabile, alla nostra epoca, nel dominio spettrale delle microonde. Nel 1964, questa radiazione sarebbe stata casualmente osservata dai due fisici statunitensi dei laboratori Bell, Arno Penzias e Robert Woodrow Wilson, che stavano provando un nuovo tipo di antenna e per questa scoperta avrebbero ottenuto nel 1978 il premio Nobel per la Fisica. La radiazione cosmica di fondo sarebbe divenuta così la seconda prova sperimentale a sostegno del Big Bang, l’evento che, 13,8 miliardi di anni fa, avrebbe dato origine al nostro Universo.
Per diverso tempo, si ritenne che al primo Big Bang ne sarebbe seguito un altro e poi un altro e poi un altro ancora, in una sorta d’infinito ripetersi di tali eventi. Questo continuo crearsi e disfarsi dell’Universo avrebbe avuto origine dal progressivo rallentamento dell’espansione, provocato dalla forza di gravità (la cui intensità sarebbe stata legata alla quantità di massa presente nell’Universo), che avrebbe preso gradualmente il sopravvento sull’espansione e ricondotto il tutto a collassare in quel punto materiale di densità infinita, la singolarità dello spazio-tempo, da cui queste ultime grandezze, tra loro indissolubilmente connesse, sarebbero state rigenerate a ogni Big Bang.
Studi successivi, tuttavia, mostrarono che la massa contenuta nell’Universo, non solo quella di cui siamo costituiti noi e tutti i corpi celesti, ma anche quella “oscura”, di cui non conosciamo la natura, ma che fa sentire gravitazionalmente la propria presenza, non sarebbe stata sufficiente a far collassare di nuovo tutto quanto all’indietro e, di conseguenza, il Big Bang venne considerato, per un po’ di tempo, un episodio unico e non ripetibile. L’Universo sembrò così essere destinato a divenire sempre più grande, sempre più vuoto e sempre più freddo, andando incontro, in modo inesorabile, a qualcosa di tristemente simile alla morte.
Alla fine del secolo passato, uno studio incentrato su un particolare tipo di Supernovae (le cosiddette “Ia”) il cui meccanismo di esplosione non è legato al collasso del nucleo di ferro, ma all’accrescimento di materiale sulla loro superficie, ha mostrato che, contrariamente a ogni ipotesi precedente, il nostro Universo avrebbe già preso a espandersi con maggior vigore e quindi il destino che lo attenderebbe sarebbe una morte, a cui però si starebbe avvicinando, non in modo lento, ma “di corsa”. Le Supernovae in questione sono considerate le “candele standard” migliori in assoluto, perché il meccanismo che le porta a esplodere, curiosamente non dissimile da quello che produce le Novae,2I precursori delle Novae e delle Supernovae (di tipo Ia) sono stelle molto compatte che si trovano in un sistema binario e, per effetto della gravità, sottraggono il gas alla loro compagna. Se il gas, accumulatosi sulla superficie della stella, raggiunge la temperatura sufficiente a innescare la fusione nucleare, si origina la Nova. Se il gas, che cade, è talmente tanto che la stella non riesce a sopportarne il peso, dopo essere collassata, esplode come Supernova. è fisicamente ben determinato e implica una luminosità intrinseca che, oltre a essere estremamente elevata, rendendo questo tipo di Supernovae visibili a grandissime distanze, ha un valore soggetto a variazioni minime. Il risultato, del tutto inatteso, sulle Supernovae ha mostrato come il termine espansivo, introdotto ad hoc da Einstein, potrebbe aver trovato la sua ragione d’essere in forma di quell’“energia oscura”, che sta spingendo l’Universo ad accelerare la propria espansione.
Materia oscura ed energia oscura sarebbero così le componenti fondamentali dell’Universo, al cui bilancio la materia ordinaria, ossia quella di cui siamo costituiti e di cui conosciamo le proprietà, contribuirebbe soltanto con un misero 3%. Su queste due quantità misteriose, la cui natura è tuttora ignota, si concentrano, da diversi anni, ormai, gli sforzi intellettivi dei cosmologi e dei fisici nucleari di tutto il mondo, poiché, se tutto ha avuto inizio, come si pensa, dal Big Bang, la relazione tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande deve essere molto stretta e, nei primissimi istanti di vita dell’Universo, si devono ricercare gli imprint di quella che sarà la sua futura evoluzione.
Un Universo che nasce con un Big Bang, che si ripete, come si pensava, nel tempo, oltre a trovare un riscontro di natura filosofica nel pensiero orientale, non richiede necessariamente, nel suo oscillare tra creazione e distruzione, l’esistenza di nessun altro Universo, perché il suo ciclico “essere” e “non essere” può motivarsi, per così dire, da sé. Un Universo che, invece, nasce e muore, lascia aperto un grande interrogativo di carattere filosofico, legato all’evento creativo, che si è scatenato per qualche ragione, ma non potrà più autoalimentarsi. Interessanti teorie, che prevedono che il nostro sia solo uno degli infiniti possibili universi, sono state sviluppate, nel tentativo di rispondere a questo grande quesito, che rimane tuttora irrisolto.
Non è chiaro se si arriverà mai e con quali tempi a comprendere come si sono svolti gli eventi e quale destino attende il nostro Universo ed eventualmente tutti i possibili universi alternativi al nostro, ma resta comunque certa la nostra natura di granelli di polvere insignificanti, seppure di stelle. Possiamo, tuttavia, trovare una grande consolazione, nel constatare, a ragione, che la nostra infinita piccolezza non ci ha impedito di compiere, nel corso della storia, passi da gigante, nel tentativo di comprendere i misteri di quel cielo che da millenni illumina le nostre vite, le nostre speranze e i nostri sogni.