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Il risultato di Van Maanen si sarebbe rivelato, in seguito, essere del tutto errato, ma, in effetti, Shapley era stato molto bravo, perché, nonostante fosse un oratore molto meno abile di Curtis, il 26 aprile del 1920 aveva avuto la meglio su di lui e la discussione sulla natura delle nebulae, non ancora conclusa, continuava a vedere la maggioranza degli astronomi contraria all’idea degli “universi isola”. A 30 anni di distanza dalla pubblicazione, nel 1890, del libro Stars and the System a opera di Agnes Mary Clerke (famosa storica dell’astronomia irlandese), in cui la nostra galassia compare, già nel titolo, come l’unico “sistema” possibile nell’Universo, gli astronomi, in maggior parte, erano ancora arroccati sulla posizione che l’autrice ben sintetizza nei termini riportati all’inizio di questo capitolo.

Qualcosa, però, stava per cambiare, proprio a cavallo di quel fatidico 26 aprile del 1920 che aveva visto Shapley e Curtis porsi a diretto confronto su posizioni estremamente diverse. Pochi mesi prima, un giovane, dotato di grandi capacità, che non si limitavano solo alla scienza, Edwin Powell Hubble, ottenuto il congedo dall’esercito, aveva deciso di accogliere l’invito di entrare a far parte del personale dell’Osservatorio di Mount Wilson, che il direttore, George Ellery Hale, gli aveva rivolto nel 1917. Edwin Hubble poteva così iniziare un’attività astronomica, che si sarebbe rivelata molto proficua. Non era stato facile, per lui, raggiungere quel traguardo: il padre lo voleva a tutti i costi avvocato ed egli aveva dovuto, pertanto, rassegnarsi a studiare e a laurearsi in legge, all’Università di Chicago, nonostante la sua grande passione fosse l’astronomia. Dopo aver ottenuto la prestigiosa borsa di studio Rhodes, che gli aveva permesso di trascorrere un anno all’Università di Oxford, rientrato negli Stati Uniti, aveva deciso di dedicarsi, finalmente, agli studi di carattere astronomico, approfittando del fatto che l’Università di Chicago aveva un proprio osservatorio, quello di Yerkes (situato nel Wisconsin, nei pressi del villaggio di Williams Bay), che era stato fondato dallo stesso Hale nel 1897 e che era dotato, all’epoca, del telescopio rifrattore che, con la lente dal diametro di 102 cm, era il più grande del mondo. Nel 1917, dopo aver ottenuto il dottorato in astronomia con una tesi, dal titolo Photographic Investigations of Faint Nebulae, e ricevuto l’allettante offerta di Hale, Edwin aveva deciso di arruolarsi come volontario per la Grande Guerra. Per sua fortuna, nonostante fosse stato inviato in Francia, non si era trovato a dover combattere in prima linea.

Il telescopio rifrattore da 40 pollici (102 cm), Osservatorio di Yerkes.
Photo Courtesy by Pedro Re. Copyright reserved.

Nel 1923, compreso che l’argomento caldo era quello delle Novae in Andromeda, Edwin Hubble pensò di dedicarsi sistematicamente alla loro ricerca e, quasi fosse il segno di un benevolo destino, trovò una Nova nella prima lastra che prese in mano. A Mount Wilson, esisteva un’ampia collezione di lastre fotografiche che erano state acquisite, a partire dal 1909, proprio su Andromeda, prevalentemente col riflettore da 1,5 m. Hubble si mise, dunque, di buona lena a cercare tra esse quelle relative al campo in cui aveva identificato la Nova e ne trovò ben 60. Esaminandole tutte quante con estrema cura, capì che quella che aveva creduto essere una Nova era, in realtà, una stella variabile (Fig. 13) e, misurandone l’annerimento sulle lastre, poté tracciarne la curva di luminosità.

Fig. 13. La storica lastra che riporta la correzione effettuata da Edwin Hubble che cancellò la lettera N (che stava per Nova) per sostituirla con la scritta VAR (che stava per “variabile”) seguita da un punto esclamativo (Courtesy of Carnegie Institution for Science/Edwin Hubble).

Questa gli parve molto simile a quelle trovate da Henrietta Leavitt per le Cefeidi della Piccola Nube e Hubble decise, quindi, di osservarla in modo continuativo, per poterne confermare la natura. Acquisì, pertanto, notte dopo notte, una lunga serie di lastre, che gli consentirono di stabilire che la curva di luminosità era proprio quella caratteristica delle Cefeidi e di determinare con esattezza il periodo di variabilità, che risultò di poco maggiore a 31 giorni.

La Leavitt aveva mostrato che, quanto più lungo era il periodo, tanto maggiore era la luminosità intrinseca massima della Cefeide, pertanto la Cefeide trovata da Hubble doveva essere molto luminosa, nonostante la sua luminosità osservata fosse talmente piccola da risultare appena percettibile sulle lastre e questa era proprio la ragione per cui nessuno, prima di Hubble, aveva notato questa stella variabile in Andromeda. Se la luminosità intrinseca era grande e quella osservata era piccola, l’unica spiegazione plausibile stava nella distanza1 dove L è la luminosità intrinseca, f è quella osservata (tecnicamente detta flusso) e d è la distanza della sorgente luminosa. della Cefeide, che risultò pari a un milione di anni luce e collocò, di conseguenza, la nebulosa di Andromeda a una distanza che era più di tre volte maggiore del diametro, che Shapley aveva attribuito alla nostra galassia.

Così, nonostante Shapley avesse sovrastimato la dimensione della nostra galassia e Hubble avesse sottostimato la distanza di Andromeda, poiché (analogamente a quanto aveva fatto Hertzsprung alcuni anni prima) aveva attribuito alla Cefeide una luminosità intrinseca inferiore al valore reale, Andromeda risultava definitivamente una nebulosa esterna alla nostra.

Se Andromeda, in cui Hubble identificò anche una seconda Cefeide e sette stelle Novae, era una nebulosa esterna, non vi era più ragione per considerare interne alla nostra galassia le altre nebulae a spirale, né quelle nebulae prive di alcun disegno, ma che avevano una forma tondeggiante, regolare e ben definita, di cui lo stesso Curtis aveva già sostenuto la natura esterna, avendo notato che si distribuivano in modo simile alle spirali ed evitavano il piano della nostra galassia. Hubble si mise, pertanto, d’impegno a studiare le caratteristiche delle nebulose extragalattiche e, nel 1926, le suddivise in tre classi fondamentali: ellittiche, spirali e irregolari.

Non tutte le galassie mostravano, infatti, il disegno a spirale ed erano pertanto dotate di un disco: le galassie ellittiche, ad esempio, avevano solamente il bulge e gli studi successivi avrebbero provato che in esse la formazione stellare era avvenuta durante un singolo evento e tutte le stelle appartenevano, di conseguenza, alla stessa generazione, ovvero quella che Baade avrebbe chiamato la popolazione II. Le spirali, dal canto loro, non si presentavano come una categoria uniforme di oggetti: in alcune, quelle che Hubble definì “Sa”, il bulge e le braccia erano estremamente pronunciati, mentre in altre, quelle che chiamò “Sc”, il bulge era piccolo e le braccia deboli e frammentate. Tra questi due tipi, Hubble aveva introdotto una terza categoria, quella delle “Sb”, che mostravano caratteristiche intermedie.

Successivamente, egli avrebbe identificato delle galassie a spirale, col bulge più piccolo e con le braccia più dissolte delle “Sc”, che avrebbe classificato come “Sd”, e infine avrebbe osservato anche le “Sm”, spirali magellaniche, ossia galassie che avevano perso quasi totalmente il bulge e le braccia e rappresentavano l’anello di congiunzione tra le spirali e le Nubi di Magellano.

A Hubble parve immediatamente che nella sua classificazione mancasse qualcosa, ovvero un tipo di galassia che avrebbe dovuto avere il bulge e il disco, ma essere priva del disegno a spirale. Era così convinto che questo genere di galassia, a cui diede il nome di “S0”, dovesse esistere, che introdusse la categoria nello schema che rappresentava la sua classificazione, prima ancora di averne osservata almeno una. La sua intuizione era corretta, ma non era facile rivelare sulle lastre le “S0” (che in virtù della loro forma, che ricorda quella di una lente, sono dette anche “lenticolari”), poiché, se viste “di faccia”, potevano essere scambiate per ellittiche, mentre “di taglio” erano indistinguibili dalle “Sa”, le spirali dotate di un bulge di tutto rispetto. Era necessario, quindi, che le “S0” si mostrassero con un’inclinazione intermedia tra le due estreme, sopra elencate, e pertanto favorevole a chi avrebbe dovuto identificarle. Hubble impiegò quasi dieci anni per ottenere la certezza dell’esistenza delle “S0”, che si sarebbero rivelate essere, oltretutto, abbastanza rare, ma nel 1936 poté aggiungere questa categoria di galassie alla sua classificazione, che viene tuttora utilizzata.

Nel frattempo, era riuscito a evidenziare, nel 1929, una relazione (Fig. 14) che lo avrebbe fatto passare alla storia. La relazione (lineare) tra la velocità di recessione delle galassie e la loro distanza (a cui sarebbe stato dato in seguito il nome di “legge di Hubble”2A seguito di una consultazione elettorale, conclusasi il 26 ottobre del 2018, i membri dell’IAU hanno stabilito di mutarne il nome in “Legge di Hubble-Lemaître”, per riconoscere il contributo di Georges Lemaître, che nel 1927 aveva ipotizzato l’esistenza di una tale relazione.) aveva questa forma: v = 513 d. In essa, v rappresentava la velocità di allontanamento radiale delle galassie, espressa in km/s, d la loro distanza, espressa in Megaparsec (Mpc)3Dal Glossario: Megaparsec – È un multiplo del parsec (pc). Un Megaparsec (Mpc) corrisponde a un milione di pc., e la costante di proporzionalità 513 risultava espressa, di conseguenza, in km s1 Mpc1.

Fig. 14. In alto, la relazione trovata da Edwin Hubble nel 1929, presentata nell’articolo A relation between distance and radial velocity among extra-galactic nebulae4cfr. Bibliografia: Hubble, E. (1929) A relation between distance and radial velocity among extra-galactic nebulae, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America (PNAS), 15: 168-173.. Come si può vedere le relazioni, in effetti, sono due e corrispondono alle linee continua e tratteggiata. È proprio quest’ultima, derivata raggruppando le 24 galassie (pallini neri), di cui Hubble aveva determinato le distanze, in 9 gruppi (i pallini bianchi) per i quali egli suppose che fossero gravitazionalmente legati, a fornire il valore di 513 km/sec/Mpc. La croce, infine, rappresenta la distanza media delle 22 galassie, di cui Hubble non poté determinare individualmente la distanza, che derivò utilizzando la sua relazione. In basso, invece, è mostrata la relazione di Hubble come ottenibile con i dati sulle Supernovae Ia che consentono di raggiungere distanze di diverse centinaia di Mpc (il quadratino in basso a sinistra, prossimo all’origine delle coordinate, indica la regione investigata da Hubble nel 1929). Questo secondo grafico è la riproduzione della Fig. 3, tratta dall’articolo Hubble’s diagram and cosmic expansion di R.P. Kirshner pubblicato nel 2004 (in PNAS, 101, 8:13) ©2004 National Academy of Sciences, USA.

Per derivarla, Hubble aveva ottenuto, col telescopio Hooker di Mount Wilson (che, col suo specchio di 2,5 m di diametro, era il più grande del mondo), gli spettri di qualche decina di galassie “astronomicamente vicine”, ossia comprese entro alcuni Megaparsec, corrispondenti ad alcune centinaia di migliaia di anni luce di distanza.

Il “100 pollici” (2,5 m) di Mount Wilson. Photo Courtesy by Pedro Re. Copyright reserved.

Da essi, misurando lo spostamento delle righe di assorbimento verso il rosso, era riuscito a ottenere le velocità di allontanamento delle galassie, mentre, per stimare le loro distanze, si era servito delle “candele standard”, che era riuscito a identificare in ciascuna galassia: per le più vicine erano state le Cefeidi, per le più lontane le stelle blu più luminose degli ammassi e le Novae. Le Cefeidi erano indubbiamente le migliori “candele standard”, grazie alla relazione trovata dalla Leavitt, se non fosse stato che la calibrazione della loro luminosità intrinseca era affetta da un errore, dipendente dal metodo (quello della parallasse statistica) che era stato utilizzato per determinarla, che aveva portato Hubble a sottostimare di quasi un fattore tre la distanza di Andromeda, sei anni prima. Le stelle blu e le Novae erano “candele” molto meno precise, poiché non avevano una luminosità intrinseca, che fosse esattamente uguale per tutte. Inoltre, anche su di esse, gravava l’errore che aveva afflitto la calibrazione della luminosità intrinseca delle Cefeidi.

Per effetto della sottostima delle luminosità intrinseche delle “candele standard”, tutte le distanze risultarono sottostimate5L e d sono direttamente proporzionali essendo:
.

Questa è la ragione per cui la costante di proporzionalità, pari a 513, che avrebbe preso in seguito il nome di “costante di Hubble”, risultò sovrastimata. Il suo valore sarebbe diminuito, negli anni a venire, grazie al lavoro di due astronomi, Allan Sandage e Gérard de Vaucouleurs, che, similmente a quanto avevano fatto Shapley e Curtis, si sarebbero fronteggiati, a partire dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento, per tre decenni, portando numerose evidenze a sostegno di due valori abbastanza diversi. Allan Sandage che, lavorando all’Osservatorio di Monte Palomar, gestito dal Caltech, avrebbe avuto accesso al telescopio, che coi suoi 5 m di diametro dello specchio sarebbe stato, a partire dal 1948, per una trentina d’anni, il riflettore più grande del mondo, avrebbe derivato un valore di 50 km s1 Mpc1 per la costante di Hubble, mentre Gérard de Vaucouleurs, di origini francesi, che, dopo aver lavorato in diversi paesi e in vari osservatori, si sarebbe stabilito all’Università del Texas, ad Austin sarebbe stato strenuamente a favore di un valore esattamente pari al doppio. La discordanza tra i due valori mostra, qualora ve ne fosse bisogno, quanto complesso e impervio sia stato il cammino volto a stabilire, passo dopo passo, la distanza degli oggetti astronomici via via più lontani.