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L’atomo di Rutherford era composto da un nucleo piccolissimo, contenente quasi tutta la massa che si trovava localizzata nelle particelle di carica positiva, quelle che oggi chiamiamo protoni, e da corpuscoli molto più piccoli, quelli che oggi chiamiamo elettroni, aventi cariche di segno negativo e orbitanti attorno al nucleo. Il neutrone, particella priva di carica, ma con massa quasi uguale a quella del protone, sarebbe stato scoperto diversi anni dopo, nel 1932, dal fisico inglese James Chadwick. L’atomo di Rutherford, che mostrava una curiosa analogia col modello che Copernico aveva proposto per il Sistema Solare quasi 400 anni prima, non era, però, in grado di spiegare la ragione degli spettri a righe e, inoltre, aveva un problema ancora più grande, ovvero quello di non essere stabile. Non era, infatti, conciliabile con le leggi della elettrodinamica classica, secondo le quali una carica, qual è l’elettrone, in moto non rettilineo uniforme, quale era, secondo il modello, il suo movimento attorno al nucleo, avrebbe dovuto emettere radiazione elettromagnetica, perdendo progressivamente, però, in questo modo, la propria energia e finendo quindi col collassare sopra il nucleo entro un tempo brevissimo, dell’ordine di alcuni secondi.
Appena quattro anni dopo l’esperimento di Rutherford, il fisico danese Niels Bohr avrebbe trovato il modo di rendere stabile l’atomo di idrogeno che, essendo dotato di un solo protone e di un solo elettrone, è il più semplice in assoluto. Bohr sarebbe riuscito, inoltre, a proporre il meccanismo che avrebbe giustificato lo spettro a righe dell’atomo di idrogeno. L’assunzione di Bohr, che sarebbe stata opportunamente modificata e inglobata nell’ambito della teoria della meccanica quantistica, prevedeva che l’elettrone potesse risiedere soltanto in determinate orbite e il passaggio dalle une alle altre potesse avvenire solamente per effetto dell’assorbimento o dell’emissione di un “quanto di luce”, la particella a cui sarebbe stato dato, in seguito, il nome di fotone, dotato della giusta energia, quella corrispondente alla differenza di energia tra le diverse orbite. Per spostarsi in un’orbita più lontana dal nucleo, l’elettrone avrebbe assorbito un fotone, generando nello spettro una riga scura di assorbimento, mentre per spostarsi in un’orbita più vicina al nucleo avrebbe emesso un fotone, generando nello spettro una riga luminosa di emissione.
Il modello di Bohr costituisce una semplificazione del meccanismo molto più complesso, che regola l’emissione delle righe negli atomi e che vede gli elettroni non più collocati su delle orbite, ma all’interno di “orbitali”, ossia regioni che hanno una elevata probabilità di essere occupate dai diversi elettroni. Non è possibile, infatti, stabilire, in alcun modo, la posizione esatta degli elettroni all’interno degli atomi e, pertanto, il concetto di orbita, che risulta tanto familiare nell’ambito della fisica classica, nella meccanica quantistica diviene totalmente privo di senso.
Tuttavia, in virtù della sua semplicità, il modello di Bohr consente di rendere comprensibile anche ai non addetti ai lavori la ragione per cui gli atomi dei gas emettono uno spettro a righe e, per quanto attiene all’atomo di idrogeno, permette di calcolare le differenze di energia delle diverse orbite e di determinare con esattezza la posizione delle righe nello spettro.
Nonostante l’idrogeno sia l’elemento più abbondante nell’Universo, le sue righe non risultano ugualmente forti in tutte le stelle, poiché il fattore, che risulta determinante per la presenza e per l’intensità delle righe, è la temperatura degli strati sottostanti la fotosfera della stella. Esiste, infatti, una relazione tra la temperatura di un corpo emittente e il colore della radiazione emessa, che vede, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i corpi blu più caldi di quelli rossi. Tale relazione era già stata notata da Kirchhoff nel 1862, ma sarebbe stata giustificata, nell’ambito di una nuova teoria, nel 1900, dal fisico tedesco Max Planck, che per questo risultato avrebbe ottenuto, 18 anni dopo, il premio Nobel per la Fisica.
Una stella azzurra, quale ci appare Sirio, è quindi superficialmente più calda di una stella gialla, come il nostro Sole, o rossa, come Betelgeuse. Sirio emette, pertanto, una maggiore quantità di fotoni blu di quanto possa fare Betelgeuse e, dal momento che i fotoni blu sono caratterizzati da un’energia maggiore di quella dei fotoni rossi, sulla superficie di Sirio possono verificarsi transizioni tra le orbite degli elettroni, che necessitano di una maggiore differenza di energia rispetto a quelle che più frequentemente possono essere effettuate sulla superficie di Betelgeuse. A parità di composizione chimica delle stelle, le righe mostrate dalle stelle calde corrisponderanno a transizioni elettroniche di maggiore energia rispetto a quelle mostrate dalle stelle fredde. Righe che saranno, di conseguenza, diverse tra loro. Nello spettro delle stelle risulterà quindi “leggibile” la loro temperatura superficiale.
La spettroscopia delle stelle e, in particolare, del Sole avrebbe offerto un risultato inatteso appena otto anni dopo la pubblicazione del lavoro di Kirchhoff e Bunsen, che spiegava la natura delle righe che Fraunhofer aveva visto nello spettro del Sole. Il 18 agosto del 1868, infatti, l’astronomo francese Pierre Jules César Janssen, che sette anni dopo sarebbe divenuto il primo direttore del prestigioso Osservatorio Astronomico di Meudon, nei pressi di Parigi, avrebbe deciso di recarsi a Guntur, in India, per osservare l’eclissi totale di Sole. Janssen voleva approfittare del fenomeno (che tanto terrore aveva provocato agli antichi) per ottenere lo spettro della cromosfera solare, uno strato di gas sottilissimo, spesso appena 2.000 km, collocato sopra la fotosfera e visibile soltanto quando quest’ultima rimane oscurata per effetto della sovrapposizione della Luna.
Col suo spettroscopio, Janssen notò una riga gialla intensissima (che si trovava di poco spostata in direzione del blu rispetto alle due righe di assorbimento del sodio, identificate da Fraunhofer come D1 e D2 nello spettro del Sole) la cui origine era del tutto sconosciuta e, comprese, in quel preciso momento, che non avrebbe dovuto attendere il verificarsi del raro fenomeno dell’eclissi totale di Sole per osservare di nuovo quella riga misteriosa, ma che sarebbe stato sufficiente trovare il modo di oscurare artificialmente il Sole.
Rientrato in Francia, si mise d’impegno e, nel giro di qualche settimana, costruì uno spettroelioscopio, ovvero un telescopio, dotato di uno spettroscopio e di un disco scuro, avente un diametro angolare esattamente uguale a quello del Sole. Con questo strumento continuò a osservare per diversi giorni la riga gialla, di cui non conosceva l’origine.
Janssen non immaginava nemmeno lontanamente che, al di là della Manica, il direttore dell’Osservatorio Solare di Kensington, a Londra, Joseph Norman Lockyer, con uno strumento analogo al suo, stava compiendo le medesime osservazioni e, non essendo riuscito a identificare la riga gialla con nessuno degli elementi noti, aveva addirittura azzardato per questo nuovo elemento il nome di helium, in omaggio al Sole, che in greco è detto Hélios. Janssen non avrebbe nemmeno immaginato che l’articolo, in cui Lockyer annunciava il suo risultato e descriveva anche il metodo con cui l’aveva ottenuto, sarebbe giunto all’Accademia Francese delle Scienze pochi minuti prima che egli consegnasse (a mano, in segreteria) il suo articolo avente un contenuto molto simile.
Non si trattò, tuttavia, di un annuncio fortunato. Al contrario, la scoperta di Lockyer e Janssen, oltre a non ricevere la considerazione che avrebbe meritato, fu presa male dalla grandissima maggioranza degli scienziati, che non vollero dare alcun credito alla possibilità che due astronomi avessero scoperto un nuovo elemento. Sarebbe stata, infatti, la prima volta in cui un elemento chimico veniva identificato al di fuori dell’ambito terrestre e ciò pareva del tutto inaccettabile.
Sarebbero dovuti trascorrere all’incirca 30 anni prima che il chimico scozzese William Ramsay, che nel 1904 avrebbe ricevuto il premio Nobel per la scoperta dei gas nobili, tra cui è incluso anche l’elio, riuscisse a rivelare la presenza di quest’ultimo all’interno di una roccia costituita prevalentemente di uranio e la scoperta di Lockyer e Janssen potesse ricevere la giusta considerazione. La maggior parte dell’elio presente sulla Terra si origina, infatti, per effetto del decadimento radioattivo dell’uranio e Ramsay, esaminando lo spettro del gas che avrebbe fatto sprigionare dalla roccia, dopo averla riscaldata, avrebbe notato la presenza di una riga nella stessa posizione che era stata individuata da Lockyer e Janssen nello spettro della cromosfera del Sole.
L’ipotesi dei due astronomi sarebbe stata così, finalmente, rivalutata e al nuovo gas sarebbe stato assegnato proprio il nome scelto da Lockyer.