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Successivamente a Hipparcos, l’ESA ha lanciato nel 2013 un nuovo satellite, Gaia (Global Astrometric Interferometer for Astrophysics), che, tuttora in orbita intorno a L21Dal Glossario: L2 – È uno dei cinque punti di Lagrange, così detti perché fu proprio il grande matematico Joseph-Louis de Lagrange (italiano di nascita, ma francese di adozione) a calcolarne, nel 1772, la posizione. Nei punti di Lagrange, un corpo di massa trascurabile (quale è un satellite) rimane in una posizione stabile, in relazione all’effetto della forza di attrazione combinata di due corpi di massa molto maggiore (quali sono il Sole e la Terra). (a una distanza dalla Terra circa uguale a quella tra la Terra e il Sole), ha permesso di ottenere (con una precisione 200 volte superiore a quella di Hipparcos) le parallassi di 1,3 miliardi di stelle poste entro una distanza massima di 30.000 al (circa 9,2 kiloparsec, kpc2Dal Glossario: Kiloparsec – È un multiplo del parsec (pc). Un kiloparsec (kpc) corrisponde a 1.000 pc.) dal Sole. Un risultato straordinario che ha consentito di realizzare una mappa estremamente precisa e dettagliata della distribuzione tridimensionale di una porzione rilevante delle stelle che fanno parte della nostra galassia. Tuttavia, nonostante la “rivoluzione” attuata da Gaia, per distanze superiori a quelle che sono attualmente ottenibili dalla misura della parallasse, bisogna ricorrere a quelli che gli astronomi chiamano “metodi indiretti”. Questi si fondano sulla possibilità di identificare degli oggetti celesti, le cosiddette “candele standard”, dotati di una luminosità intrinseca che sia uguale per tutti, oltre che nota. Poiché la luminosità intrinseca e la luminosità osservata sono legate tra loro da una relazione abbastanza semplice,3dove L è la luminosità intrinseca, f è quella osservata (tecnicamente detta flusso) e d è la distanza della sorgente luminosa:
che dipende dalla distanza, è possibile utilizzare le “candele standard” per determinare, attraverso la misura della loro luminosità osservata, proprio la loro distanza. La relazione4 vale soltanto in assenza di assorbimento della luce, ma dal momento che quest’ultimo è, in realtà, sempre presente (in quanto provocato dalla polvere che si trova, seppure in piccole quantità, negli spazi siderali) può essere applicata dopo che la luminosità osservata è stata corretta per l’assorbimento.
Una mancata correzione, o una correzione insufficiente (ovvero l’utilizzo nella relazione di una luminosità osservata inferiore a quella che la “candela standard” mostrerebbe in assenza di assorbimento), si traduce in una sovrastima della sua distanza. La correzione per l’assorbimento interstellare non è, evidentemente, un compito facile. La distribuzione della polvere, ingrediente fondamentale, assieme al gas, per la formazione di nuove stelle, non è uniforme, ma si addensa in alcune regioni e più un corpo celeste è lontano, più è probabile che attraversi un certo numero di queste regioni e che la sua luce venga parzialmente assorbita, risultando in una luminosità che è minore di quella che si osserverebbe in assenza di assorbimento.
A Joseph Fraunhofer fu negata la soddisfazione di vedere quali importanti frutti avrebbero dato i suoi due “gioielli”: il rifrattore con cui von Struve avrebbe misurato la parallasse di Vega e l’eliometro con cui Bessel avrebbe misurato quella della “stella fuggitiva”. Morì, infatti, 11 anni prima che tutto questo accadesse, nel 1826, a soli 39 anni, molto probabilmente a causa dell’avvelenamento provocatogli per aver lavorato a lungo (nella realizzazione dei suoi strumenti) coi vapori dei metalli pesanti. Non fu dimenticato, tuttavia, dalla storia, anche se il suo nome non è legato alla misura della parallasse, ma a una scoperta che egli fece quando aveva solamente 27 anni e che aprì la strada a quella che sarebbe stata chiamata in seguito “l’astrofisica”, ovvero la scienza incentrata sullo studio della natura e della struttura dei corpi celesti.
Nel 1814, Fraunhofer costruì uno spettroscopio, uno strumento che, sfruttando il fenomeno di rifrazione della luce, riusciva a separare finemente le sue diverse componenti. Qualcosa di simile aveva già fatto Newton quando, dopo aver notato la presenza dell’aberrazione cromatica provocata dalle lenti, era riuscito, a seguito di una serie di esperimenti, basati sull’utilizzo del prisma5Dal Glossario: Prisma – Uno dei possibili elementi “disperdenti” dello spettroscopio (l’altro è il reticolo). Per effetto della sua forma, il prisma riesce a produrre una grande rifrazione dei diversi “colori”, che costituiscono la luce bianca. a dimostrare che la luce bianca risultava dall’insieme di tutti i diversi colori. Il grande scienziato inglese non ottenne, tuttavia, il consenso in cui aveva sperato, poiché il suo lavoro, intitolato A new Theory about Light and Colours e pubblicato nel 1672 dalla Royal Society, fu aspramente criticato, oltre che da Huygens, anche da Robert Hooke, fisico, biologo e geologo inglese, il cui nome è rimasto legato alla legge che descrive il comportamento della forza elastica. Hooke fu, scientificamente, un acerrimo nemico di Newton e cercò di ostacolarlo in tutti i modi, approfittando anche del ruolo di segretario della Royal Society, che rivestì dal 1677. Tanto aspra fu la guerra che Hooke combatté contro Newton che, quando quest’ultimo divenne, nel 1703, presidente della Royal Society, ordinò la rimozione del ritratto di Hooke, morto nel corso dello stesso anno.
L’elemento disperdente dello spettroscopio di Fraunhofer era proprio il prisma, anzi, per la verità, i prismi erano due, intercambiabili e di diverse dimensioni. Col prisma più grande Fraunhofer poteva ottenere una maggiore separazione dei colori, ovvero quello che in termini tecnici è detto uno “spettro” della luce maggiormente disperso, o di maggiore risoluzione.
Osservando col suo spettroscopio la luce emessa da una fiamma, Fraunhofer si accorse che, se lasciava cadere su di essa un pizzico di sale, sulla parte gialla dello spettro si produceva una linea molto intensa che, osservata attraverso il prisma più grande, risultava composta da due righe distinte. Analogamente a quanto aveva fatto Galileo, puntando il suo cannocchiale verso il cielo, Fraunhofer decise di puntare lo spettroscopio verso il Sole, o meglio, per evitare di accecarsi, verso la luce del Sole, che aveva fatto passare attraverso una sottile fessura, realizzata ponendo gli scuri della sua finestra quasi a contatto tra loro. Così facendo, si accorse, con grande sorpresa, che la riga, o le due righe, che gli erano apparse luminose sullo spettro della fiamma, si trovavano esattamente nella stessa posizione anche nello spettro del Sole, ma invece di essere luminose, erano scure e che, oltre a esse, nello spettro erano presenti altre nove righe scure.
Fraunhofer decise, quindi, di classificare le righe sulla base della loro posizione e della loro intensità, scegliendo di ordinarle alfabeticamente, partendo dalla parte rossa dello spettro e utilizzando il carattere maiuscolo per le più intense e il minuscolo per quelle meno intense. Le dieci righe di Fraunhofer partivano quindi dalla A, la più rossa, e finivano con la H, la più blu, e comprendevano anche due righe, la a e la b, caratterizzate da un’intensità più bassa delle altre. La riga, che aveva visto nel sale e che si trovava nella regione del giallo, era la D, nella sua classificazione, che aveva suddiviso nelle due righe D1 e D2 distinguibili soltanto utilizzando lo spettroscopio ad alta risoluzione.
Il doppietto di righe era provocato dal sodio, presente, oltre che nel sale, che è cloruro di sodio, anche nel Sole e il motivo per cui le righe apparivano scure in quest’ultimo e luminose sulla fiamma sarebbe stato compreso solamente molti anni dopo. Fraunhofer non poteva sapere che la presenza delle righe scure nel Sole era legata sia alla composizione chimica superficiale della nostra stella sia, e soprattutto, alla sua temperatura superficiale, né poteva sapere che le prime due righe della sua classificazione, le più rosse, la A e la B, non si generavano sulla superficie del Sole, ma nella nostra atmosfera terrestre, a opera di molecole presenti in essa. Fraunhofer non si fermò, naturalmente, al suo primo spettroscopio, perché nel giro di pochi anni ideò un nuovo strumento ottico, il reticolo di diffrazione. Questo gli avrebbe permesso di ottenere una dispersione molto più grande della luce e, come conseguenza, egli riuscì, nel 1821, a identificare e a misurare la posizione di 570 righe scure nello spettro del Sole. Poi, puntato il suo spettroscopio verso Venere, Capella (la stella più luminosa della costellazione dell’Auriga) e Betelgeuse, si accorse che i loro spettri erano molto simili a quello del Sole, mentre lo spettro di Sirio era sostanzialmente diverso.
Diversi anni dopo, due scienziati tedeschi, Gustav Robert Kirchhoff (noto ai più per le sue leggi sui circuiti elettrici che aveva sviluppato nel 1845, quando era ancora uno studente di matematica e fisica all’Università Albertina) e Robert Wilhelm Eberhard Bunsen (un chimico che viene invece generalmente ricordato per lo strumento che porta il suo nome, “il becco di Bunsen”) avrebbero deciso di proseguire il lavoro iniziato da Fraunhofer.
In particolare, utilizzando proprio il becco di Bunsen, che altro non è che un fornello, capace di ottenere fiamme di gas, aventi temperature molto diverse tra loro, e uno spettroscopio costruito da Kirchhoff, i due scienziati, che dal 1854 lavoravano insieme all’Università di Heidelberg, cominciarono a gettare sulla fiamma gli elementi chimici più disparati, analogamente a quanto aveva fatto Fraunhofer con il sale. Dopo una serie interminabile di quelle che lo stesso Kirchhoff avrebbe definito (in una lettera all’amico Henry Roscoe, chimico inglese) delle «lunghissime notti insonni», furono in grado di stabilire che esisteva una relazione univoca tra gli elementi chimici e il sistema di righe che caratterizzava lo spettro di ciascuno di essi.
Compresero, inoltre, la relazione che intercorreva tra le righe luminose e quelle scure: le prime si potevano ottenere scaldando un gas a una temperatura, il cui valore dipendeva dal tipo di gas; le seconde, invece, comparivano nello spettro quando il gas in questione non era riscaldato, ma era posto fra l’osservatore, che guardava attraverso lo spettroscopio, e una sorgente di calore.
Nel celebre articolo intitolato Über die Fraunhoferschen Linien e pubblicato sugli Annalen der Physik nel 1860, Kirchhoff e Bunsen chiarirono quindi definitivamente la natura delle righe che Fraunhofer aveva identificato nel Sole, associando a ciascuna di esse l’elemento chimico che, attraverso la riga (o le righe), manifestava la sua presenza. Mostrarono, inoltre, che il motivo per cui le righe apparivano sempre scure era dovuto al fatto che la regione da cui provenivano, la fotosfera6Dal Glossario: Fotosfera – È la regione “visibile” di una stella. La parola (che deriva dal greco phótos, “luce”, e spháira, “globo”) significa, infatti, “sfera di luce”., era più fredda degli strati a essa sottostanti.
Kirchhoff e Bunsen non conoscevano la ragione per cui i gas scaldati presentavano sempre e solo determinate righe, né il motivo che legava la presenza delle righe alla temperatura di riscaldamento del gas. Alla loro epoca, la struttura dell’atomo non era stata ancora delineata, nemmeno nella sua forma più schematica, come avrebbe fatto, quasi 50 anni dopo, il chimico e fisico neozelandese Ernest Rutherford che, nel 1909, con un celebre esperimento, avrebbe mostrato che il modello “a panettone” (proposto dal fisico inglese John Thomson nel 1904), che vedeva la carica positiva distribuita in modo diffuso su tutto l’atomo e le cariche negative inserite, come se fossero state le uvette del panettone, all’interno di essa, non poteva essere ritenuto valido.