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Espresse in parsec, le distanze delle quattro stelle Proxima Centauri, Alpha Centauri, 61 Cygni A e Vega risultano pari a 1,30, 1,34, 3,48 e 7,87, valori che riescono a darci immediatamente la percezione, molto meglio di quanto possano fare se espressi in UA, delle loro distanze relative, ossia del fatto che Vega si trova a una distanza dal Sole che è pari a più del doppio di quella a cui si trova 61 Cygni A ed è più di cinque volte maggiore di quelle a cui si trovano Proxima e Alpha Centauri. Abbastanza vicina al parsec, come valore, è un’altra unità, che viene utilizzata talvolta dagli astronomi per esprimere le distanze degli oggetti che si trovano all’interno della nostra galassia, ovvero l’anno luce (al).

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’anno luce non è una misura di tempo in quanto corrisponde alla distanza che la luce, che viaggia alla ragguardevole velocità di circa 300.000 chilometri al secondo, percorre in un anno, il cui valore, espresso in secondi, risulta pari a 31.557.600. Moltiplicando i due numeri, si ottiene che 1 al corrisponde a poco meno di 9.461 miliardi di chilometri, ovvero all’incirca a 63.241 UA e, poiché 1 pc corrisponde a 206.265 UA ne consegue che 1 pc si traduce all’incirca in 3,26 al. Dalla relazione tra parsec e anno luce si possono derivare le distanze delle quattro stelle, espresse in quest’ultima unità, che risultano rispettivamente pari all’incirca a 4,24, 4,37, 11,34 e 25,66. Similmente a quanto accade se si utilizzano i parsec, tali valori forniscono una migliore percezione delle relazioni tra le distanze di quanto possano fare le UA.

L’utilizzo dell’anno luce offre, inoltre, un vantaggio non piccolo, in quanto, pur essendo un’unità di misura delle distanze e non del tempo indica, tuttavia, anche il momento in cui il segnale luminoso, che riceviamo sulla Terra, è partito dalle stelle. Queste ultime, quindi, lungi dall’essere fissate a una volta celeste eterea e cristallina, come avevano creduto per molti secoli gli uomini, mostrano ogni notte un’immagine appartenente a un passato, che si fa sempre più remoto quanto più aumenta la loro distanza dalla Terra.

Il cielo che vediamo la notte è quindi un insieme di “altri mondi”, ciascuno caratterizzato da una diversa età, con cui difficilmente potremo entrare in contatto. Se inviassimo un segnale radio verso una stella, con la speranza che attorno a essa si possa trovare in orbita un pianeta abitato da una civiltà capace di raccoglierlo e di risponderci, il tempo impiegato dal segnale per raggiungere il pianeta avrebbe un valore, espresso in anni, pari, all’incirca, a quello della distanza della stella, espressa in anni luce, e lo stesso tempo impiegherebbe il segnale di risposta dell’ipotetica civiltà aliena per arrivare sulla Terra. Infatti, le onde radio, che utilizziamo da circa 100 anni per trasmettere le informazioni, sono parte, come la luce, della radiazione elettromagnetica e viaggiano attraverso lo spazio con la stessa velocità.

In realtà, le quattro stelle, di cui sopra, non sono poi così lontane e, specialmente le prime tre, ci consentirebbero di scambiare segnali radio entro tempi che sono ben inferiori alla durata media della vita umana e quindi un’ipotetica civiltà aliena, che avesse un livello di evoluzione tecnologica comparabile o superiore alla nostra, sarebbe in grado di entrare in contatto con noi.
Lo stesso sarebbe possibile per gli abitanti di un ipotetico pianeta orbitante attorno a Sirio (la stella venerata dagli antichi Egizi e temuta invece dai Greci e dai Romani), che dista dal Sole soltanto 8,6 al. Riguardo a Sirio, fu ancora Bessel a suggerire, nel 1844, sulla base delle variazioni di moto proprio che aveva osservato nel corso degli anni, che potesse avere una compagna, invisibile con i telescopi dell’epoca. Tale compagna, molto meno luminosa, a cui è stato attribuito il nome di Sirio B, sarebbe stata osservata per la prima volta una ventina di anni dopo, nel 1862, dall’astronomo statunitense Alvan Graham Clark.

Molto più diluita nel tempo risulterebbe l’eventuale comunicazione con gli abitanti di un pianeta che si trovasse a orbitare attorno alla stella Arturo (il “guardiano dell’orso”, cfr. Capitolo 11Capitolo 1[…] Da quel momento la stella Arturo, che sulla Terra fu Arcas e il cui nome greco, Arktôuros, significa “il guardiano dell’orso”, si trova prossima alla Grande Orsa e ne è eterna protettrice e custode. Dal mito dell’Orsa (árktos in greco) sono derivati anche i termini “Artide” e “artico”, che indicano proprio le regioni in cui la costellazione appare più alta nel cielo…), la cui distanza dal Sole, pari a 36,7 al, comporterebbe, nel migliore dei casi, un solo scambio di messaggi nel corso di una vita umana, mentre chi inviasse il proprio messaggio in direzione di Aldebaran, la stella più luminosa della costellazione del Toro, non riceverebbe mai una possibile risposta, in quanto la stella si trova a 65 al dal Sole. La situazione non sarebbe migliore per le sette stelle più luminose dell’Orsa Maggiore, quelle che costituiscono il Carro, le cui cinque più vicine al Sole hanno distanze dell’ordine degli 80 al, mentre le altre due si trovano a distanze che rispettivamente raggiungono e superano di poco i 100 al.

La Stella Polare, la più luminosa della costellazione dell’Orsa Minore, attorno a cui paiono ruotare, nel corso della notte, le stelle circumpolari dell’emisfero boreale, si trova, invece, a una distanza che supera i 400 al e a una distanza simile, più precisamente pari a 440 al, sono localizzate le Pleiadi, mentre molto più lontane sono le due stelle più luminose della costellazione di Orione, Alpha e Beta Orionis, meglio note come Betelgeuse e Rigel, che distano dal Sole rispettivamente 620 e 860 al circa.
Fa una certa impressione guardare le due stelle di Orione e pensare che la luce che ci giunge oggi è partita da Rigel 240 anni prima che da Betelgeuse, ma che, in entrambi i casi, quando ha lasciato le stelle, qui, sulla Terra, eravamo ancora nel Medioevo.

Molto più lontana di Betelgeuse e Rigel è Deneb, la cui distanza dal Sole supera di poco i 2.600 al, un valore che ci può apparire spaventosamente grande anche se, in realtà, esistono stelle molto più lontane che si collocano all’estremo confine della nostra galassia e le cui distanze da noi possono superare ampiamente i 50.000 al, dal momento che la galassia si estende all’incirca per 100.000 al e il Sole non è localizzato nel suo centro. Non è facile, tuttavia, vedere queste stelle lontanissime, nemmeno con i grandi telescopi, perché la loro luce risulta fortemente attenuata dalla distanza. È molto più semplice identificare, invece, le strutture che hanno dimensioni superiori a quelle delle singole stelle, quali sono gli ammassi, in cui esse si raggruppano per effetto della forza di gravità, sia perché sono molto più grandi delle stelle e quindi visibili a distanze molto maggiori, sia perché sono molto più luminose in quanto la loro luce risulta composta dalla somma di tutte le stelle che ne fanno parte.

Quattro ammassi di stelle sono addirittura identificabili a occhio nudo. Due di questi, h e χ Persei, si trovano nella costellazione di Perseo (come suggerito dal loro nome) e sono visibili da tutto l’emisfero boreale e dalle regioni dell’emisfero australe, aventi latitudine superiore a -33°. I due ammassi sono detti “aperti”, a causa della loro forma irregolare e della loro scarsità di stelle. Nonostante questo, la loro composizione stellare risulta evidente anche senza l’ausilio di un telescopio ed è nota fin dall’antichità: il primo che registrò la loro esistenza fu, infatti, Ipparco di Nicea nel 130 a.C.

La distanza dal Sole di h e χ Persei (7.500 al) è molto maggiore di quelle delle singole stelle che si possono vedere a occhio nudo e, nel guardarli la notte, dovremmo pensare che l’immagine che riusciamo a cogliere ora è partita più di tre millenni prima che le grandi civiltà del bacino del Mediterraneo e dell’area medio-orientale avessero iniziato a svilupparsi qui, sulla nostra Terra.

Ancora più lontani di h e χ Persei, sono 47 Tucanae e Omega Centauri, due ammassi che, per la loro forma regolare e ricchezza di stelle, sono detti “globulari” e distano dal Sole 13.000 e 16.000 al. Visibili, oltre che dalle regioni che appartengono all’emisfero australe anche (seppure più bassi sull’orizzonte) dalle regioni boreali, aventi latitudini rispettivamente inferiori a 23° e a 40°, appaiono, a occhio nudo, sotto forma di una stella molto grande e sfocata.

L’ora di Omega Centauri, 3 giugno 2016, Spagna. Photo courtesy Project Nightflight, Copyright Reserved.

In effetti, Omega Centauri fu ritenuto essere una stella fino a quando, nel 1677, Edmond Halley (noto ai più per aver compreso che la cometa che avrebbe in seguito portato il suo nome aveva un periodo di rivoluzione attorno al Sole di circa 76 anni) osservandolo dall’isola di Sant’Elena con un cannocchiale, non riuscì a distinguerne le stelle, ma ne affermò la natura nebulare. Sarebbero dovuti trascorrere 150 anni prima che l’astronomo scozzese James Dunlop, dall’Osservatorio di Paramatta, cittadina dell’Australia, localizzata in prossimità di Sydney, descrivesse, nel 1827, Omega Centauri come un globo di stelle che si concentra gradualmente verso il centro.

La composizione stellare di 47 Tucanae fu stabilita, invece, molto tempo prima, nel 1750, dall’astronomo francese Nicolas-Louis de Lacaille, durante una spedizione astronomica al Capo di Buona Speranza.

Il video "Zoom into 47 Tucanae". Crediti: NASA, ESA, and G. Bacon (STScI). Courtesy by Hubblesite.org.
Il video “Zoom into 47 Tucanae”. Crediti: NASA, ESA, and G. Bacon (STScI). Courtesy by Hubblesite.org.

La maggior parte delle nebulose, siano esse di natura galattica, come i resti di Supernova, nebulose planetarie o regioni in cui si formano le nuove stelle, oppure galassie esterne, non è visibile a occhio nudo. Per poter osservare questi oggetti, occorre dotarsi di un telescopio equipaggiato con un rivelatore, capace di accumulare il segnale luminoso su un periodo di tempo, più o meno lungo, in dipendenza dal tipo di sorgente che si sta osservando e dal genere di dettaglio che si vuole identificare. L’occhio dell’astronomo riceve, grazie al telescopio, molta più luce di quanta ne possa raccogliere senza di esso, ma non può sommare nel tempo questa luce come può fare, invece, un rivelatore. Per questa ragione Lord Rosse scorse, coi suoi telescopi, la forma di un granchio in M1, mentre, se avesse avuto il modo di registrare le sue osservazioni sulle lastre fotografiche, avrebbe potuto vedere una struttura filamentosa del tutto diversa. Sempre per quanto riguarda M1, si è soliti affermare che la Supernova esplose nel 1054 a.C., ma, in realtà, questa è la data in cui i cinesi registrarono il fenomeno, in quanto l’esplosione avvenne 6.500 anni prima, essendo la distanza di M1 dal Sole pari all’incirca a 6.500 al.

A questo punto, sorge spontaneo domandarsi come gli astronomi possano misurare distanze così enormi. Fino a tempi molto recenti, la misura della parallasse era ottenibile soltanto da Terra, ma la presenza dell’atmosfera, che produce un ingrandimento delle immagini stellari (a un valore che tipicamente si attesta attorno a 1”) unita all’impossibilità di aumentare la distanza “di base” Terra-Sole (che viene riflessa nel moto annuale delle stelle) rendeva determinabile, con sufficiente accuratezza, solamente la distanza delle stelle localizzate entro 50 pc dal Sole. Nel 1989, la missione spaziale Hipparcos (High Precision Parallax Collecting Satellite), promossa dall’ESA (European Space Agency), ha permesso un primo grande passo in avanti: il satellite, rimasto in orbita attorno alla Terra per quattro anni, ha fornito le parallassi di circa 120.000 stelle situate entro 150 pc dal Sole (con una precisione, 0,001”, superiore di un ordine di grandezza a quella ottenibile da Terra).