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Non sarebbe stato possibile, del resto, nemmeno in un’epoca come la sua, in cui gli occhi degli astronomi si erano fatti metaforicamente molto più grandi, riuscire a comprendere che nemmeno il Sole si trovava al centro, ma in una zona periferica della nostra galassia, di cui lo stesso Herschel aveva delineato, per primo, una forma, seppure molto approssimativa, sulla base di una serie di estenuanti conteggi di stelle, che aveva effettuato su 600 regioni diverse. La prima rappresentazione grafica della nostra galassia si deve, infatti, proprio a lui ed è inclusa in un articolo di 56 pagine, pubblicato nelle Philosophical Transactions del 1785, il cui titolo On the construction of the heavens, traducibile in Sulla costruzione dei cieli, sarebbe molto probabilmente piaciuto a Galileo.
L’essere riuscito a contare le stelle in ben 600 regioni diverse della Via Lattea, che è la proiezione nel cielo del “disco” della galassia a cui apparteniamo e che, se osservata a occhio nudo, appare sotto forma di una grande nebulosità diffusa, aveva indotto Herschel a pensare che tutte le nebulose fossero costituite da stelle, visibili soltanto grazie al telescopio, e che la ragione per cui in molti casi le stelle non si riuscivano a vedere nemmeno col telescopio fosse da attribuirsi alla loro enorme distanza. Egli riteneva, infine, che le stelle, inizialmente disperse nello spazio, col trascorrere del tempo, per effetto della forza di Newton, finissero per concentrarsi in formazioni, che potevano apparire più o meno regolari, separate da ampie regioni di vuoto.
Anche Caroline non era rimasta inattiva nel periodo di tempo intercorso fra la scoperta di Urano e il trasferimento a Slough. Utilizzando il piccolo telescopio che il fratello le aveva donato in segno di riconoscimento per il prezioso contributo che aveva dato non solo all’identificazione del nuovo pianeta, ma all’attività astronomica di tutti quegli anni, il 27 agosto del 1783 aveva osservato M110. Questo avrebbe dovuto essere il centodecimo, e ultimo, oggetto del catalogo di Messier, se non fosse stato che, per qualche incomprensibile ragione, Messier l’aveva disegnato nello schema che includeva un altro oggetto, il trentunesimo del catalogo, M31 (noto ai più col nome di “galassia di Andromeda”), ma non lo aveva incluso nell’elenco di tutti gli oggetti del suo catalogo.
Charles Messier era un astronomo francese, dedito alla ricerca delle comete, e proprio per questa ragione aveva pubblicato, nel 1774, il Catalogue des Nébuleuses et des Amas d’Étoiles, in cui aveva raccolto tutti gli oggetti celesti dall’aspetto nebulare che, se osservati con un piccolo telescopio, avrebbero potuto essere scambiati per comete. Era fondamentale, per chi voleva identificare delle nuove comete, poter eliminare fin da subito i possibili candidati, che si fossero rivelati essere oggetti già noti. Lo scopo che aveva indotto Charles Messier a compilare quel catalogo era, pertanto, esclusivamente pratico e non vantava alcuna pretesa di carattere interpretativo sulla natura degli oggetti in esso inclusi, al di là del fatto che egli avesse voluto tenere distinti quelli che mostravano un aspetto nebulare da quelli che risultavano, invece, costituiti da ammassi di stelle più o meno densi. L’obiettivo perseguito da Messier era stato semplicemente quello di facilitare l’identificazione delle nuove comete e sicuramente egli riuscì nell’intento, per quanto attenne la sua ricerca, dal momento che scoprì ben 16 comete.
Caroline aveva deciso di dedicarsi alla ricerca di nuove comete e per questa ragione aveva iniziato a utilizzare il catalogo di Messier, ma quell’oggetto, M110, che si trovava molto vicino (Fig. 7) alla nebulosa di Andromeda, perché in realtà, come sappiamo da circa 90 anni, è una galassia “satellite” di quest’ultima, e che era stato disegnato ma non catalogato, aveva attirato irrimediabilmente la sua attenzione. Così aveva deciso di osservarlo e di descrivere accuratamente quanto era riuscita a vedere di esso attraverso il suo piccolo telescopio. Non molto, per la verità, ma abbastanza per veicolare il suo interesse verso gli oggetti dall’aspetto nebulare, che all’epoca si ritenevano essere tutti parte della nostra galassia. Da quel fatidico 27 agosto 1783, Caroline iniziò a cercarli nel cielo e si accorse che sorpassavano di gran lunga il numero di 110 e si trovavano sparsi un po’ ovunque. Li osservò, li descrisse e li catalogò con grande cura.
Anche Wilhelm, rassegnatosi all’idea che non sarebbe mai riuscito a misurare la parallasse delle stelle, aveva cominciato a interessarsi agli oggetti dall’aspetto nebulare e, dopo aver osservato tutti quelli del catalogo di Messier, si era messo a cercarne degli altri, probabilmente spinto anche dal fatto che quattro oggetti di quel catalogo – M27, M57, M76 e M97, che oggi sappiamo essere le uniche nebulose planetarie elencate da Messier – gli avevano fatto rivedere profondamente la sua convinzione, in base alla quale riteneva che tutte le nebulose fossero costituite di stelle.
Fu proprio Herschel a coniare il termine di “nebulosa planetaria”, che utilizziamo tuttora, quando, osservando al telescopio il primo dei quattro oggetti sopra elencati, si trovò davanti un’immagine, costituita da una stella al centro, circondata da una nebulosità diffusa, che lo sconcertò non poco. Non era pensabile che la nebulosità fosse costituita da stelle, perché sarebbero state troppo più deboli della stella centrale e inverosimilmente troppo uguali tra loro. L’unica spiegazione che gli parve plausibile, per interpretare quanto stava vedendo attraverso il telescopio, fu che si trattasse di un sistema planetario in formazione e che dalla nube di gas, circostante la stella centrale, si sarebbero potuti condensare, col trascorrere del tempo, i pianeti. Questa interpretazione di Herschel riprendeva un’ipotesi che era stata formulata, nel 1755, dal filosofo tedesco Immanuel Kant (nella Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels, ovvero La storia universale della natura e la teoria del cielo), secondo la quale il Sistema Solare si era formato da una massa di gas incandescente centrata sul Sole da cui si sarebbero staccati e raffreddati tutti i pianeti. La visione di M27 parve a Herschel una sorta di verifica sperimentale dell’ipotesi nebulare di Kant e alcuni anni dopo, nel 1796, il matematico, fisico e astronomo francese Pierre-Simon Laplace, fondandosi proprio sulle osservazioni di Herschel, avrebbe dato forma organica all’intuizione di Kant (di cui non era a conoscenza) nell’opera l’Esposizione del sistema del mondo.
L’ipotesi di Herschel, tuttavia, non era corretta poiché il processo che è alla base della formazione di una nebulosa planetaria non ha nulla a che vedere con la generazione di nuovi pianeti, ma indica, piuttosto, quello che accade a una stella, quando ha esaurito tutto il suo combustibile nucleare e, dopo aver espulso la maggior parte del proprio gas nelle sue ultime fasi di vita, si va spegnendo piano piano, attraverso l’emissione del proprio calore residuo, mentre il gas rilasciato nello spazio costituisce la nebulosità diffusa, che le rimane attorno, continuando a espandersi e a raffreddarsi.
È probabile che sia stata proprio l’osservazione delle quattro planetarie, inconsapevolmente elencate da Messier, a far maturare in Herschel l’idea di un nuovo progetto: l’identificazione e la catalogazione di tutti gli oggetti dall’aspetto nebulare visibili nell’Universo. Il catalogo di Messier, infatti, si limitava a pochi oggetti brillanti, che non costituivano assolutamente un insieme omogeneo, e Herschel si propose di fare qualcosa di meglio: il suo catalogo, oltre a comprendere oggetti molto più deboli di quelli identificati da Messier, ne avrebbe incluso anche un’accurata descrizione e avrebbe avuto l’obiettivo di tentare di stabilire la natura delle nebulae, dal momento che, contrariamente a quanto egli aveva pensato in precedenza, non potevano essere tutte costituite da stelle.
La prima versione di questo catalogo fu pubblicata nel 1786 e, come recita il titolo, Catalogue of One Thousand new Nebulae and Clusters of Stars, conteneva un migliaio di oggetti nuovi, il cui aspetto poteva essere solamente nebulare o indicare chiaramente la presenza di un ammasso di stelle – un cluster of stars – che, per risultare visibile come tale, doveva essere osservato con un telescopio abbastanza potente: Messier, nel suo catalogo, ne aveva inclusi ben 56, ma non era riuscito a distinguerli tutti dalle altre nebulose.
Wilhelm e Caroline giunsero a Slough il 3 aprile del 1786 e si buttarono a capofitto in una nuova straordinaria impresa: la costruzione di un grande telescopio, che il re Giorgio III aveva deciso di finanziare. Non interruppero, tuttavia, la loro intensa attività di osservazioni e fu così che il primo giorno del mese di agosto di quello stesso anno Caroline scoprì la sua prima cometa. Oltre a essere la prima cometa identificata da Caroline, che in seguito ne avrebbe individuate altre sette, era la prima cometa a essere scoperta da una donna e per questa ragione venne soprannominata “la cometa della prima donna”. Giorgio III decise di gratificare Caroline con un assegno mensile, che la qualificava come assistente ufficiale di Wilhelm e fu così che “la cometa della prima donna”, lungi dall’essere portatrice di sventure, come era, ancora a quell’epoca, diffusa credenza popolare, fece di Caroline la prima donna a essere remunerata per un lavoro di carattere scientifico. In appena tre anni, il grande telescopio di Herschel, noto anche come il 40 piedi1Dal Glossario: Piede – Unità di misura di lunghezza adottata dagli inglesi (e nei paesi di cultura anglosassone) che non seguono il sistema metrico decimale. Il piede, foot, che viene utilizzato per indicare le lunghezze focali dei telescopi, corrisponde a 30,1 cm. (dotato di uno specchio di 1,20 m di diametro e avente una lunghezza focale di 12 m) vide la luce.
Caroline, tuttavia, non poté assistere alle ultime fasi della realizzazione di quello strumento, né, tanto meno, alla scoperta che Wilhelm avrebbe effettuato con esso la notte del 28 agosto del 1789 quando, dopo averlo puntato in direzione di Saturno, ne avrebbe identificato “la sesta Luna”, poiché a causa di una serie di dissapori con Mary Baldwin Pitt, la vedova di un ricco commerciante londinese che Wilhelm aveva sposato nel 1788, all’inizio del 1789 si era vista costretta a prendere la sofferta decisione di abbandonare la casa in cui aveva vissuto con il fratello.