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Tutto lasciava supporre che Galileo, rientrato a Firenze, avrebbe ripreso la sua posizione più che cauta nei confronti dell’eliocentrismo e così, in effetti, fu per alcuni anni, fino a quando, nel 1623, l’elezione al soglio pontificio di Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini, amico e sostenitore di Galileo, fece supporre erroneamente a quest’ultimo che fosse finalmente giunto il momento di poter riabilitare il modello in cui aveva sempre creduto. Così, dopo una serie di incontri incoraggianti sull’argomento, avuti proprio col Papa, lo scienziato decise di mettere in cantiere un’opera che aveva in mente da diverso tempo: il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo.
Scritto in volgare e non in quella che era ancora la lingua tradizionale delle opere dedicate agli studiosi, il latino, questo lavoro di Galileo, di facile comprensione e di gradevole lettura, pare proprio volersi rivolgere, com’era probabilmente nelle intenzioni dell’autore, a un vasto pubblico.

Tre sono i protagonisti del dialogo, che si svolge in un periodo temporale di quattro giorni, all’epoca già tutti defunti: Filippo Salviati, matematico fiorentino e amico di Galileo; Giovanni Francesco Sagredo, nobile e colto veneziano, che Galileo aveva conosciuto e frequentato nel periodo trascorso a Padova; infine, Simplicio, il celebre commentatore bizantino delle opere aristoteliche.
L’amicizia di Galileo con Salviati era stata molto forte. Diversi anni prima, nel 1613, ospite nella sua villa, a Lastra a Signa, lo scienziato aveva scritto il trattato Istoria e Dimostrazioni intorno alle Macchie solari e ai loro accidenti. Nell’opera, dedicata proprio all’amico, aveva inteso polemizzare con Christoph Scheiner, gesuita tedesco che, per salvare la perfezione del Sole, aveva sostenuto che le macchie non potessero per alcun motivo trovarsi sulla sua superficie, ma dovessero invece essere dei satelliti orbitanti attorno a esso.

Il ruolo di Salviati nel Dialogo è quello di illustrare il sistema di Copernico, controbattendo la teoria geocentrica sostenuta da Simplicio e correggendo le ingenuità di Sagredo che, pur essendo un uomo di grande esperienza e ampie vedute, non è un esperto in materia.
La differenza di toni, razionalità e modo di atteggiarsi mostra immediatamente che Salviati sta dando voce a Galileo, Sagredo rappresenta tutti i destinatari dell’opera e Simplicio, invece, è l’antico modo di vedere la scienza e il mondo che non ha più ragione di esistere. Il nome stesso di quest’ultimo personaggio, scelto non a caso, esprime già, in un certo senso, l’opinione di Galileo verso un tipo di attitudine che, in maniera del tutto “semplicistica”, si ritiene scientifica, quando invece non lo è.

Per la prima volta nella sua vita, Galileo era uscito allo scoperto: all’atteggiamento impersonale, che aveva caratterizzato il Sidereus Nuncius, aveva fatto seguito, nel Dialogo, una presa di posizione netta, chiara, distinta e favorevole al sistema del mondo di Copernico.
Incredibilmente, l’inquisitore di Firenze, Clemente Egidi, non si accorse della rivoluzionarietà di quell’opera e, nel marzo 1631, ne autorizzò la pubblicazione.
Il Dialogo poté così venire alla luce, in forma di stampa, nel febbraio dell’anno successivo, ma la reazione ostile non si fece attendere molto. Nel luglio del 1632, Egidi dovette far ritirare tutte le copie in commercio e Urbano VIII, sollecitato dai gesuiti, nelle cui fila si trovavano anche diversi nemici di Galileo, ordinò che una di queste venisse inviata al Sant’Uffizio per gli opportuni accertamenti e che Galileo fosse convocato a Roma.

Due erano i gesuiti fortemente ostili a Galileo: il primo era il sopracitato Scheiner, con cui la polemica, avente per oggetto la natura delle macchie solari, si sarebbe addirittura protratta fin dopo la morte dei due protagonisti, con la pubblicazione, nel 1651, di un lavoro postumo di Scheiner; il secondo era Orazio Grassi, matematico italiano, con cui il conflitto di carattere scientifico, iniziato nel 1618, verteva, invece, sulla natura delle comete. Grassi, in particolare, non aveva perdonato a Galileo un trattato che quest’ultimo aveva pubblicato nel 1623, dedicandolo a papa Urbano VIII, e in cui aveva palesemente ridicolizzato la posizione del gesuita sulle comete.

Galileo tentò in tutti modi di non andare a Roma, adducendo una serie di scuse, che gli permisero di farsi attendere dal 28 settembre del 1632, giorno in cui aveva ricevuto la prima convocazione, fino al 13 febbraio del 1633, giorno in cui giunse a Roma, facendosi ospitare dall’ambasciatore del Granducato di Toscana. Questi riuscì a ottenere dal tribunale dell’Inquisizione il permesso di fare alloggiare l’anziano scienziato presso di lui, tra un interrogatorio e l’altro, fatta eccezione per il periodo compreso tra i primi due interrogatori, che si svolsero il 12 e il 30 aprile 1633, in cui Galileo venne tenuto nel carcere del Sant’Uffizio.

Gli interrogatori furono in tutto quattro: ai due sopracitati, se ne aggiunse uno il 10 maggio e un altro, il 21 giugno. Il Papa non intervenne a sostegno di Galileo, come quest’ultimo aveva sperato, e così, il 22 giugno del 1633, lo scienziato venne dichiarato colpevole di eresia da sette inquisitori su dieci e il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo fu messo all’Indice.

Inginocchiato nella sala capitolare del convento domenicano adiacente la chiesa di Santa Maria sopra Minerva, al termine della lettura della sentenza, Galileo dovette pronunciare la dichiarazione di abiura.
In virtù di quella che all’epoca era considerata un’età veneranda – 69 anni – allo scienziato pisano fu concesso di espiare la pena agli arresti domiciliari, così, dopo aver trascorso un breve periodo a Siena, presso l’amico arcivescovo Antonio Piccolomini, si trasferì nella villa “il Gioiello” di Arcetri, che gli era stata trovata dalla figlia suor Maria Celeste, che sarebbe morta a soli 34 anni, appena pochi mesi dopo la condanna del padre. Questi, invece, dopo aver trascorso gli ultimi quattro anni della sua vita nella totale cecità, l’8 gennaio del 1642 avrebbe lasciato definitivamente questo mondo.

All’incirca un anno dopo la scomparsa di Galileo1Il 4 gennaio del 1643, secondo il calendario gregoriano, oppure il 25 dicembre del 1642, secondo il calendario giuliano, ancora vigente, all’epoca, in Inghilterra. in un minuscolo paesino della Contea del Lincolshire, sarebbe prematuramente venuto alla luce un bambino. Talmente piccolo era Isaac Newton, nato tre mesi dopo la morte del padre, che la mamma, Anna Ayscough, amava raccontare che lo si sarebbe potuto alloggiare comodamente all’interno di un contenitore da un litro. Nessuno avrebbe scommesso sulla sua sopravvivenza, invece Isaac non solo avrebbe superato la prima infanzia, ma sarebbe divenuto anche lo scienziato più importante del suo tempo, provando che la forza che legava tra loro i corpi celesti era la stessa che faceva cadere i corpi verso quello che Aristotele aveva definito il loro “luogo naturale”.

Con la sua legge di gravitazione universale, che avrebbe enunciato nell’opera Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, pubblicata nel 1687 e comunemente nota come i Principia, Isaac Newton avrebbe dimostrato che era proprio quella stessa forza a tenere unito il Sistema Solare e a fornire la giustificazione teorica delle tre leggi che Keplero2Dal Glossario: KEPLERO, prima legge – Le orbite descritte intorno al Sole dai pianeti sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei fuochi.
KEPLERO, seconda legge – Il raggio vettore che congiunge il pianeta al Sole descrive entro l’ellisse aree uguali in tempi uguali.
KEPLERO, terza legge – Il quadrato del periodo di rivoluzione di un pianeta attorno al Sole è proporzionale al cubo della sua distanza media dal Sole.
aveva ottenuto dalle osservazioni. Alle due leggi illustrate nell’Astronomia Nova, nel 1619 Keplero ne aveva infatti aggiunta un’altra, quella che anche oggi ci è nota come la “terza legge di Keplero”3Dal Glossario: Keplero, terza legge – Il quadrato del periodo di rivoluzione di un pianeta attorno al Sole è proporzionale al cubo della sua distanza media dal Sole., che aveva scoperto, per caso, cercando delle relazioni matematiche fra i parametri delle orbite dei pianeti. In quella relazione, che legava i quadrati dei periodi impiegati dai pianeti a percorrere le loro orbite ai cubi delle loro distanze medie dal Sole, Keplero aveva voluto vedere il segno dell’armonia che aveva sempre cercato nell’Universo e che lo aveva spinto a realizzare tanti anni prima la magnifica costruzione del Mysterium cosmographicum. Così nell’Harmonices Mundi, che aveva visto la luce nel 1619, lo scienziato tedesco era potuto ritornare, in un certo senso, alle origini, riprendendo il concetto pitagorico della “musica delle sfere”, che aveva esteso alle orbite ellittiche, poiché, in virtù della variazione di velocità, che compete a ciascun pianeta, a esse potevano essere assegnate delle scale musicali diverse. Confrontando le variazioni di velocità dei diversi pianeti e associandole a delle differenze in termini di toni e semitoni, in un contesto che legava la geometria alla musica, Keplero era riuscito a interpretare la sua terza legge.

Quasi 70 anni dopo, Isaac Newton avrebbe reso tutto molto più semplice, facendo entrare in modo definitivo l’approccio fisico – e non più solo geometrico – al “sistema del mondo”.
Il grande scienziato inglese avrebbe, infatti, mostrato come le tre leggi di Keplero fossero la naturale conseguenza dell’effetto di quella che avrebbe definito vis impressa, che nel caso in questione era la forza (di gravità) esercitata dal Sole su ciascun pianeta e viceversa. L’intensità di tale forza è la stessa, ma, essendo la massa del Sole molto maggiore di quella del pianeta, la vis impressa non produce alcun moto sul primo, mentre “costringe” il pianeta a muoversi lungo un’orbita ellittica, caratterizzata da una velocità (media) che è tanto più piccola quanto più questo è lontano dal Sole.

Attraverso un’analisi attenta delle tre leggi di Keplero, Newton avrebbe compreso che la forza di gravità doveva essere di tipo centrale, ossia diretta lungo la congiungente Sole-pianeta (una condizione che avrebbe fornito la giustificazione teorica della seconda legge di Keplero4Keplero, seconda legge – Il raggio vettore che congiunge il pianeta al Sole descrive entro l’ellisse aree uguali in tempi uguali.) e avere un’intensità che diminuiva al crescere del quadrato della distanza tra i due corpi (una condizione da cui sarebbero scaturite naturalmente la prima5Keplero, prima legge – Le orbite descritte intorno al Sole dai pianeti sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei fuochi. e la terza legge di Keplero6Keplero, terza legge – Il quadrato del periodo di rivoluzione di un pianeta attorno al Sole è proporzionale al cubo della sua distanza media dal Sole.).
Oltre a introdurre per primo il concetto di “forza”, Newton, riprendendo un’intuizione di Galilei, ne avrebbe anche formulato lo stretto legame con la variazione dello stato di quiete o di moto imperturbato di un corpo: in assenza di una vis impressa, il corpo avrebbe continuato a restare fermo oppure a muoversi con velocità costante, seguendo la propria vis insita, ovvero la capacità di persistere nel suo stato di quiete o di moto.

Quest’elegante interpretazione di Newton non sarebbe bastata, tuttavia, a rivalutare la figura di Galileo, il cui edificio funebre, che rende giusto onore alle sue spoglie mortali nella basilica di Santa Croce a Firenze, non avrebbe potuto essere realizzato (per opposizione del Sant’Uffizio) che nel 1737, a quasi 100 anni dalla scomparsa del grande scienziato pisano.