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A Praga, Tycho fece appena in tempo a consegnare tutti i suoi dati nelle mani di Keplero, pregandolo di mostrare con questi la validità del modello che aveva proposto come alternativa a quelli di Tolomeo e di Copernico, perché morì appena un anno dopo quell’incontro.
Il lavoro di Keplero durò diversi anni, ma non produsse né il risultato in cui aveva sperato Tycho, né, tanto meno, quello desiderato da Keplero: le osservazioni effettuate da Tycho su Marte erano talmente precise da mostrare senza ombra di dubbio, che era impossibile riprodurre l’orbita particolarmente ellittica di questo pianeta, attraverso la composizione di moti circolari.
Così, Keplero, a malincuore, si era visto costretto a rinunciare alla tanto desiderata perfezione della forma sferica e a enunciare nel suo Astronomia Nova, pubblicato nel 1609, le prime due leggi, che avrebbero portato in seguito il suo nome anche se nella sua opera quella che per noi è la seconda legge, nota anche come la “legge delle aree”, era la prima ed era scritta in un modo molto confuso. La seconda legge, al contrario, era stata scritta con l’esatta formulazione con cui la conosciamo oggi come la prima legge di Keplero1Dal Glossario: Keplero, prima legge – Le orbite descritte intorno al Sole dai pianeti sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei fuochi..
La pubblicazione del Sidereus Nuncius di Galileo avveniva dunque nel 1610, l’anno successivo a quello de l’Astronomia Nova in un momento in cui l’eliocentrismo pareva essere finalmente uscito dall’oblio e sul punto di conquistare il primato, che sarebbe spettato di diritto a un modello formalmente più elegante di quello di Tolomeo e che, grazie al lavoro di Keplero, cominciava a mostrare di accordarsi molto meglio alle osservazioni.
Tutto avrebbe quindi lasciato supporre che lo scienziato pisano si sarebbe finalmente sbilanciato in favore di quello che riteneva essere il modello giusto da diverso tempo, ma in realtà non fu così. La posizione di Galileo rimase ancora improntata a quella cautela che aveva già manifestato nella lettera a Keplero 13 anni prima, anche se nel Sidereus Nuncius risulta evidente che egli non temeva più di poter perdere la propria credibilità scientifica, ma piuttosto di poter divenire oggetto di persecuzione da parte della Chiesa che, in seguito al Concilio di Trento, aveva assunto un atteggiamento di totale difesa della propria ortodossia e delle Sacre Scritture.
Del resto, quando il Sidereus Nuncius vide la luce, erano trascorsi appena 10 anni dalla brutale esecuzione di Giordano Bruno, un domenicano che, dopo essere stato condannato per eresia, era stato bruciato nella piazza di Campo dei Fiori, a Roma. Quello che Giordano Bruno aveva sostenuto non era solo il sistema proposto da Copernico, ma addirittura la possibilità che esistessero infiniti Sistemi Solari come il nostro: un Universo infinito e popolato da “infiniti mondi”.
È probabile che Galileo sapesse che Giordano Bruno non era stato messo al rogo soltanto per la sua posizione, peraltro modernissima, relativa all’astronomia, ma per questioni che andavano a minare alle radici i capisaldi della teologia cristiana, essendo egli riuscito a ottenere l’insolito primato di tre scomuniche, una da ciascuna delle tre diverse confessioni religiose, la cattolica, la luterana e la calvinista, che si stavano aspramente combattendo in tutta l’Europa. Nonostante questo, l’esecuzione, a cui aveva fatto seguito la dispersione delle ceneri dell’eretico nel Tevere, non poteva non incutere più di un timore a Galileo.
La lettura del Sidereus Nuncius lascia dunque emergere l’impressione di uno scienziato che racconta in modo quasi impersonale i risultati delle sue osservazioni, evitando di sottolineare, in alcun modo, che quanto egli aveva visto avrebbe potuto costituire la solida base sperimentale, su cui fondare il modello eliocentrico. Galileo sembra proprio voler evitare accuratamente qualsiasi riferimento al fatto che le sue osservazioni possano mostrare al mondo come stanno effettivamente le cose. La discussione sulla natura della Luna è talmente densa di dettagli e di dimostrazioni matematiche, volte a esemplificare il metodo che gli aveva consentito di stimare l’altezza dei monti del nostro satellite naturale, che il lettore perde di vista il “nocciolo della questione”, ossia che lo scienziato era riuscito a provare che la natura della Luna era del tutto simile a quella della Terra, mentre secondo Aristotele ai corpi celesti erano precluse tutte le imperfezioni che caratterizzavano il mondo sublunare.
Anche nel descrivere con grande accuratezza la differenza fra le immagini che il suo cannocchiale aveva prodotto per le stelle e per i pianeti (ovvero che, mentre gli ultimi risultavano ingranditi, le prime aumentavano soltanto in luminosità, mantenendo la propria dimensione apparente inalterata), Galileo evita accuratamente di sottolineare che questo provava quanto gli eliocentristi di ogni epoca avevano sempre sostenuto, ma non avevano potuto dimostrare, ossia che le stelle erano molto più lontane dei pianeti.
L’unico accenno esplicito all’eliocentrismo è nel commento (con cui si è voluto aprire il capitolo) che egli scrive in relazione alla sua scoperta, ovvero al fatto che, per primo, utilizzando un occhiale, che ha potuto realizzare per «illuminazione della divina grazia», è riuscito a vedere quattro pianeti orbitanti attorno a Giove. Questo era la conferma del fatto che la Terra e la sua Luna non costituivano un caso speciale e si poteva tranquillamente togliere la Terra dal centro.
Quello che Galileo non scrisse, probabilmente perché pensò di essersi già sbilanciato troppo a favore dell’eliocentrismo con il commento di cui sopra, è che la scoperta dei quattro astri medicei inferiva un terribile colpo al modello di Tycho (che per la verità non aveva avuto un grande successo al di fuori dell’ambiente di stretta osservanza luterana), poiché la presenza di un secondo centro in quel sistema eliocentrico, che Tycho aveva voluto mettere in rotazione attorno alla Terra, sarebbe risultata alquanto difficile da giustificare.
La cautela con cui Galileo aveva scritto il Sidereus Nuncius parve funzionare, perché quell’opera non provocò né polemiche, né clamori, tuttavia, quattro anni dopo la sua pubblicazione, il 21 dicembre del 1614, lo scienziato venne accusato direttamente da un predicatore domenicano, Tommaso Caccini, dal pulpito della chiesa di Santa Maria Novella, a Firenze. Il frate, giocando sull’ambiguità di una celebre frase degli Atti degli Apostoli – «Viri galileai, quid statis adspicentes in caelum?», ovvero «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?», riferita ai discepoli di Gesù che, dopo aver assistito alla sua ascensione, continuavano a tenere gli occhi rivolti al cielo – volle, invece, scagliare una pubblica accusa a Galileo e ai suoi sostenitori, ossia agli “uomini galileiani”.
La posizione eliocentrista di Galileo era, del resto, ben nota ed egli, già in passato, aveva esposto delle ipotesi, che andavano a minare quel pensiero aristotelico che, grazie alla rilettura di san Tommaso, si era trasformato in una sorta di “struttura portante” della teologia. Ancora quando era, per volontà del padre Vincenzo, uno studente di medicina dell’Università di Pisa, aveva teorizzato che, in assenza di attrito, la velocità di caduta di un corpo non sarebbe dipesa dalla sua massa, ma soltanto dall’altezza da cui veniva lasciato cadere. Questo significava, in contrasto con quanto asserito da Aristotele – secondo cui i corpi si muovevano, seguendo una linea retta, verso il loro luogo naturale, con una velocità che era direttamente proporzionale alla loro massa – che una palla di cannone e una piuma, lasciate cadere da un’ideale torre di Pisa collocata nel vuoto, ossia in assenza dell’attrito provocato dall’aria, sarebbero arrivate a terra nello stesso istante.
Tommaso Caccini non si limitò a quella frase rivolta platealmente dal pulpito della chiesa, perché alcuni mesi dopo denunciò Galilei al Sant’Uffizio, un organo che era stato istituito nel 1542 da papa Paolo III, con lo scopo di «mantenere e difendere l’integrità della fede, esaminare e proscrivere gli errori e le false dottrine», e il cui nome originale era “Sacra Congregazione della romana e universale Inquisizione”. Caccini accusò Galilei di aver scritto, in una lettera inviata al suo amico e collaboratore Benedetto Castelli, monaco benedettino, che la Terra si muoveva mentre il Cielo stava fermo.
La posizione che Galileo nutriva nei confronti delle Sacre Scritture era che non si dovessero prendere “alla lettera”, perché il loro compito era quello di risultare comprensibili a un pubblico vasto. In questo senso, anche l’invocazione di Giosuè non doveva essere considerata una verità assoluta e indiscutibile, ma piuttosto un modo di raccontare gli eventi, aderendo a quella che era – ed è tuttora – l’impressione comune, ovvero che sia il Sole a ruotare attorno alla Terra e non viceversa.
Così pensando, e rendendo noto il suo modo di pensare, nel tentativo di difendersi dall’accusa che Caccini gli aveva rivolto pubblicamente, Galileo si era avventurato nell’insidioso terreno della teologia, spingendosi addirittura ad affermare, in una lettera inviata nel marzo del 1615 alla granduchessa madre Cristina di Lorena, che
«l’intenzione dello Spirito Santo era insegnare agli uomini come si possa andare in Cielo, e non come vada il Cielo» (Galileo 1895, p. 319).
A seguito della denuncia di Caccini, il Sant’Uffizio prese in esame la teoria eliocentrica, che fino a quel momento era rimasta quasi del tutto ignorata. Galileo fu convocato a Roma nel dicembre del 1615 e, dopo aver avuto alcuni colloqui con papa Paolo V, si trovò al cospetto dell’uomo che 15 anni prima aveva mandato al rogo Giordano Bruno, il cardinale Bellarmino, che proprio dal Papa aveva ricevuto il compito di dissuadere lo scienziato dall’insegnare la teoria eliocenrica. Inaspettatamente, Bellarmino si mostrò abbastanza aperto e affermò che, per quanto la teoria eliocentrica andasse contro la verità indiscutibile delle Sacre Scritture, ovvero la già citata preghiera di Giosuè, egli si sarebbe mostrato pronto a reinterpretarle, qualora ci fossero state delle prove evidenti e indiscutibili contro l’immobilità della Terra. Questa posizione del cardinale Bellarmino era, del resto, già stata espressa dallo stesso in una lettera, che aveva inviato qualche mese prima, il 12 aprile del 1615, a padre Antonio Foscarini, sostenitore dell’eliocentrismo e amico di Galilei, in cui aveva affermato di non poter escludere a priori l’attendibilità della teoria eliocentrica, ma suggeriva di proporla come descrizione fisica, solo dopo che se ne avesse avuto la prova concreta e definitiva: la prefazione di Andreas Osiander all’opera di Copernico aveva evidentemente sortito l’effetto sperato da chi l’aveva scritta.
Il 24 febbraio del 1616 il Sant’Uffizio dichiarò falsa e formalmente eretica la teoria eliocentrica, pur lasciando aperta la possibilità di far riferimento a essa come semplice modello matematico e così, a più di 70 anni dalla sua pubblicazione, il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico si ritrovò all’Indice dei libri proibiti. A seguito della decisione del Sant’Uffizio, Galileo riuscì a farsi ricevere in privato dal cardinale Bellarmino che, nell’accoglierlo, lo esortò di nuovo esplicitamente ad abbandonare la posizione copernicana e a impegnarsi di non insegnarla, né difenderla a parole o in forma scritta. Galileo, allora, chiese al Cardinale una lettera, che questi avrebbe stilato tre mesi dopo, il 25 maggio del 1616, in cui si attestava che lo scienziato non aveva ricevuto alcuna condanna, né gli era stato richiesto di abiurare, ma era stato semplicemente avvertito che la teoria copernicana era contraria alle Sacre Scritture e pertanto non andava né difesa, né divulgata.