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I Babilonesi sapevano che il Sole, nel corso dell’anno, si muove da ovest verso est – si tratta di un moto che, in realtà, riflette quello orbitale della Terra – percorrendo all’incirca 1° al giorno e per questo motivo avevano scelto di raggruppare le stelle, che si trovavano lungo l’eclittica, in 12 costellazioni. Ogni costellazione aveva un’estensione prossima ai 30° e quindi, in ciascun mese (della durata di 29 o 30 giorni, dal momento che il loro calendario era lunare), il Sole occupava in cielo una costellazione diversa.

Anche le “stelle mobili” si muovevano lungo l’eclittica, seppure in modo meno regolare, e i Babilonesi pensavano che dalla loro posizione in una determinata costellazione avrebbero potuto trarre indicazioni o presagi sugli avvenimenti in corso o futuri. Nasceva così l’astrologia, che fondava le sue origini sulla convinzione che l’Uomo fosse parte di un disegno divino già prestabilito e che il Cielo potesse contenere traccia della volontà degli dei.
Questo legame fra l’astronomia e il divino, che era caratteristico dei Babilonesi, li indusse a classificare tutte le stelle e le costellazioni, che avevano identificato sulla base dell’altezza massima che potevano raggiungere in cielo, e a suddividerle in tre fasce, associando ciascuna di esse a una delle tre divinità che costituivano la triade cosmica.

Le 33 stelle e costellazioni della fascia più alta appartenevano per i Babilonesi a Enlil, la divinità sumera del vento, dell’aria e delle tempeste, che aveva separato la Terra, Ki, e il Cielo, An, da cui era stato generato, rendendo il mondo abitabile per gli esseri umani; le 23 stelle e costellazioni della fascia intermedia appartenevano, invece, ad An che, oltre a rappresentare il cielo, era anche il dio degli spiriti e dei demoni, nonché il giudice supremo; infine le 15 stelle e costellazioni della fascia più bassa erano sotto il dominio di Ea, divinità dell’acqua, della saggezza e della magia.
Il ricordo di Ea resta tuttora vivo nelle costellazioni dell’Acquario e del Capricorno. La prima, infatti, è derivata dal modo con cui i Babilonesi erano soliti rappresentare la divinità, ovvero con due corsi d’acqua che uscivano dalle sue mani, mentre la seconda ha avuto origine direttamente dai simboli di Ea, ossia una capra e un pesce.

Le costellazioni babilonesi erano abbastanza simili a quelle che abbiamo ereditato dai Greci, ma non perfettamente coincidenti, sia perché, a causa della diversa latitudine e soprattutto del fenomeno di precessione degli equinozi, il cielo visibile dalla Mesopotamia nel 3000 a.C. era diverso da quello che si poteva vedere dalla Grecia più di 2.000 anni dopo, sia perché ogni popolo ha voluto vedere disegnato in cielo quanto era più corrispondente ai suoi miti. Cefeo e Cassiopea, ad esempio, che sono due importanti costellazioni dell’emisfero boreale e costituiscono l’unico caso di una coppia di coniugi che sono stati collocati l’uno vicino all’altra nel cielo, erano per i Babilonesi la Pantera-Grifone e il Cervo.

La stessa Orsa Maggiore, la costellazione probabilmente più nota, identificata dai diversi popoli vissuti nell’emisfero boreale, non è stata vista da tutti nello stesso modo.
Il mito greco la volle un’orsa, collocata in cielo da Zeus insieme al figlio Arcas che aveva avuto da lei quando, prima di essere stata trasformata in quell’animale, era una bellissima giovane donna, Callisto, che faceva parte della scorta di Artemide, la dea della caccia. Quest’ultima, accortasi che la giovane era in attesa di un figlio, l’aveva mandata via ed Era, la moglie di Zeus, l’aveva trasformata in un’orsa subito dopo il parto. Callisto, a cui Era aveva lasciata inalterata la coscienza di essere umano, aveva dovuto abbandonare il figlio, che sarebbe stato trovato e cresciuto da un cacciatore. Compiuti i 16 anni, Arcas si era imbattuto nell’orsa, che gli si era fatta incontro con la speranza di essere riconosciuta, ma egli, al contrario, temendo di essere aggredito le aveva scagliato contro ben tre frecce, tutte deviate da Zeus, che alla fine si era deciso a scendere dall’Olimpo per raccontare al giovane la verità. Arcas, allora, temendo che la madre potesse essere uccisa da altri cacciatori, aveva deciso che le sarebbe stato sempre accanto per proteggerla. Zeus, commosso da un tale gesto di amore, aveva scelto di metterli nell’unico luogo in cui nessuno avrebbe più potuto separarli: il Cielo. Da quel momento la stella Arturo, che sulla Terra fu Arcas e il cui nome greco, Arktôuros, significa “il guardiano dell’orso”, si trova prossima alla Grande Orsa e ne è eterna protettrice e custode.
Dal mito dell’Orsa (árktos in greco) sono derivati anche i termini “Artide” e “artico”, che indicano proprio le regioni in cui la costellazione appare più alta nel cielo.

Esiste tuttora una certa confusione fra la costellazione dell’Orsa Maggiore e il Grande Carro, anche se quest’ultimo, in realtà, ne comprende solo una parte, quella più facilmente identificabile, in quanto costituita dalle sette stelle più luminose. È interessante notare che tale ambiguità esisteva già all’epoca in cui fu scritta l’Iliade, come si può verificare ai versi 676-677 del XVIII Libro («e la grand’Orsa Che pur Plaustro si noma»), con cui si è aperto il capitolo, che fanno parte della descrizione dello scudo di Achille, forgiato dal dio del fuoco Efesto e contenente una mirabile rappresentazione dell’Universo.

Il Plaustro che, come scrive Omero, è il nome alternativo attribuito alla Grande Orsa, è proprio il carro agricolo, utilizzato per trasportare carichi pesanti e trascinato dai buoi.
Molto suggestivo è infine il riferimento alla circumpolarità della costellazione, che si trova nei due versi che concludono la descrizione.
I primi a identificare la forma di un carro nelle sette stelle più luminose dell’Orsa Maggiore furono molto probabilmente i Sumeri, in quanto nel MUL.APIN, il più antico testo mesopotamico di carattere astronomico-astrologico, questa costellazione, appartenente a Enlil, viene indicata col termine sumerico MAR.GÍD.DA, che significa proprio “il Carro”.
Le popolazioni nomadi dell’Arabia, invece, nelle stelle che formano il quadrilatero scorsero una bara e nelle tre stelle che si staccano da esso, in una sorta di fila non allineata, le tre figlie piangenti del defunto, probabilmente influenzate sia dalla forma, sia dal fatto che questo gruppo di stelle ruota lentamente nel corso della notte attorno a un punto, il polo nord celeste (citato anche nel verso 677 del XVIII Libro dell’Iliade), in modo simile a un triste corteo funerario.

In questo incedere lento, che pare persino un po’ sofferto, è anche l’origine della parola “settentrione”, poiché i Romani assimilarono le sette stelle più luminose dell’Orsa Maggiore a sette buoi, septem triones, che trascinavano dietro di sé un carro, compiendo un percorso circolare.
I popoli dell’Europa settentrionale videro nel Grande Carro la forma di una padella o di un cucchiaio, associazione di cui rimane traccia nel termine big dipper, ovvero “grande mestolo”, con cui gli inglesi sono soliti indicare tuttora le sette stelle più luminose dell’Orsa Maggiore.
Nella costellazione dell’Orsa Maggiore, gli Egizi videro invece un toro seguito da un uomo, i Celti un cinghiale, i Navajo (nativi americani stanziati prevalentemente nel nord-est dell’Arizona e costituenti il gruppo etnico più numeroso di 300.000 persone circa) scorgono la forma di un uomo che danza e gli Inuit (che vivono nelle regioni artiche del Canada, della Groenlandia e degli Stati Uniti d’America) quella di una renna.
Questa enorme varietà d’interpretazione non stupisce, anzi, dimostra ancora una volta come gli uomini abbiano sempre voluto scorgere nel Cielo il riflesso, in forma pura e incontaminata, di quanto vedevano accadere sulla Terra. Il Cielo, seppure lontano e irraggiungibile, sembrava voler indicare agli esseri mortali la via che avrebbero dovuto seguire, guidati attraverso i secoli dalla speranza di poter essere un giorno parte di quella divina pace e bellezza.