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Mercurio è vicinissimo al Sole e risulta pertanto osservabile con enorme difficoltà solo immediatamente prima dell’alba o appena dopo il tramonto. Questo è molto probabilmente il motivo per cui i Sumeri lo avevano chiamato Udu, un termine che nella loro lingua significava “saltellante” ed esprimeva, molto efficacemente, il modo con cui Mercurio pare spostarsi da una parte all’altra del Sole. Del resto, non a caso, ispirandosi proprio a questo tipo di movimento a balzi, i Greci prima e i Romani poi avrebbero deciso di associare al pianeta la divinità incaricata di portare rapidamente i messaggi degli dei.
Anche Venere si può osservare dalla Terra solamente prima dell’alba o dopo il tramonto del Sole, ma essendo la sua distanza da quest’ultimo quasi doppia rispetto a quella di Mercurio, il pianeta è visibile senza alcuna difficoltà e la sua separazione angolare dal Sole può raggiungere addirittura i 45°. La grande luminosità di Venere, unita al fatto che questa “stella” veniva a trovarsi sempre e soltanto vicina al Sole, l’ha resa, oltre che simbolo di grande bellezza e femminilità per molti popoli antichi, anche estremamente importante dal punto di vista religioso, essendo il Sole spesso identificato con la divinità più importante dei popoli pagani.
Il riflesso di questo culto per Venere ha valicato, inaspettatamente, quegli angusti confini, facendosi strada anche all’interno della nostra religione: ad esempio, nelle litanie lauretane, ovvero le suppliche che si rivolgono a Maria al termine del Rosario, la Madonna viene proprio associata a Venere nel suo apparire in forma di stella del mattino. Del resto, anche il verbo “venerare” e il sostantivo “venerazione”, che i cattolici riservano generalmente, oltre che a Dio, anche alla Madonna e ai Santi, traggono origine etimologica proprio dal pianeta Venere.
Non fu affatto semplice per gli antichi capire che Vespero e Lucifero, i nomi con cui i Romani indicavano Venere nel suo apparire serale o mattutino e che avevano derivato a loro volta dalle due divinità dell’antica Grecia, Hesperus e Phosphoros, erano in realtà la stessa “stella”. Soltanto due popoli, separati tra loro nello spazio oltre che nel tempo, i Sumeri e i Maya, giunsero a questa corretta conclusione. I Maya, tuttavia, decisero di mantenere la duplicità di aspetto del pianeta nella sua rappresentazione grafica, attraverso la raffigurazione di due sfere distinte appoggiate su una forma che ricorda quella di un serpente, come risulta dal Codice di Dresda (il manoscritto Maya più antico e più completo), per associare molto probabilmente alla scomparsa di Venere dopo il tramonto e alla sua ricomparsa prima dell’alba il viaggio compiuto da Kukulkán (il serpente piumato, dio della conoscenza) nel mondo degli Inferi. I Sumeri, invece, diedero al pianeta la forma di una stella singola, ma caratterizzata da otto punte, un numero che appare quanto meno insolito. Il simbolismo, in realtà, voleva fornire un’indicazione ben precisa sul numero di anni che erano necessari affinché Venere tornasse a ritrovarsi nella stessa posizione rispetto al Sole nello stesso giorno. I Sumeri erano degli attentissimi osservatori del cielo e, in quanto tali, avevano misurato il periodo sinodico di Venere, ossia il numero di giorni che sarebbero intercorsi prima che Venere tornasse a essere vista dalla Terra nella stessa posizione rispetto al Sole. Tale periodo, pari a circa 584 giorni, oltre a essere maggiore della durata dell’anno terrestre
– 365 giorni circa – non ne costituiva un multiplo intero e, pertanto, il “ritorno” di Venere non poteva cadere nello stesso giorno dell’anno, a meno che non fossero trascorsi cinque periodi sinodici, corrispondenti a 2.920 giorni e a 8 anni solari, essendo 2.920 il minimo comune multiplo di 584 e 365.
Anche i Sumeri, analogamente a quanto avrebbero fatto in seguito i Greci e i Romani, avevano associato a Venere una divinità femminile, Inanna, che rappresentava fecondità, bellezza e amore. Talmente importante era per loro Inanna, da essere parte di una triade celeste che comprendeva Nanna, la falce di Luna crescente, e Uto, il Sole, ove quest’ultimo era il figlio dei primi due.
I Babilonesi, che ereditarono la tradizione astronomica sumera, mantennero la simbologia legata al numero otto nella rappresentazione in forma di stella che continuarono a dare a Inanna, divenuta per loro Ishtar, e a questa divinità importantissima dedicarono, non a caso, l’ottava porta della città di Babilonia.
A differenza di quanto accadeva per Mercurio e Venere, le altre tre “stelle mobili” erano visibili in qualunque ora della notte. Una di queste, Marte, era caratterizzata da un colore rossastro e per tale ragione venne associata al sangue, al fuoco e più in generale alla guerra. Il nome con cui ci è noto oggi questo pianeta è proprio quello del “dio della guerra” dei Romani, che ancora una volta avevano seguito la tradizione greca secondo cui il pianeta rosso era associato al dio Ares. Gli stessi Greci, del resto, avevano subìto l’influenza dei Babilonesi, per i quali Marte era la rappresentazione celeste del dio Nergal, divinità del fuoco, della distruzione e della guerra.
Giove è il pianeta più grande e massiccio del Sistema Solare. Escludendo il Sole e la Luna, che sono i corpi celesti più luminosi del cielo, ma hanno forma estesa e non puntiforme come quella delle stelle, Giove è secondo in luminosità soltanto a Venere, che tuttavia è visibile solo al mattino o alla sera. Lo splendore di Giove nel cielo notturno è stato probabilmente la ragione per cui i Greci prima e i Romani poi lo hanno associato alla divinità più potente in assoluto: il capo di tutti gli dei. L’ultimo pianeta visibile a occhio nudo è appena un po’ più piccolo di Giove, ma la sua distanza dal Sole è doppia e per questo motivo appare in cielo molto meno luminoso. I Greci vollero associarlo a Crono, padre degenere di Zeus. Crono, tuttavia, era anche il dio del tempo, che consuma progressivamente l’uomo, fino a distruggerlo, e in questo senso il suo aver combattuto con forza e crudeltà l’avvicendamento delle generazioni rimandava al mito dell’Età dell’Oro, in cui gli uomini, inconsapevoli del loro destino mortale, vivevano felici. Anche gli antichi abitanti della penisola italica favoleggiavano dell’Età dell’Oro: un periodo caratterizzato da una perenne primavera, abbondanza di nutrimento e assenza di guerre, in cui gli uomini avevano vissuto insieme agli dei, prima di essere cacciati da questi ultimi. In quell’epoca felice, aveva regnato Saturno, dio dell’agricoltura, e risultò naturale, sotto l’influenza della cultura greca, associare Crono a Saturno, facendo divenire quest’ultimo il padre di Giove. Del mito originale di Saturno rimase traccia nei Saturnalia, celebrazioni che duravano una settimana, dal 17 al 23 dicembre, in cui, in ricordo dell’Età dell’Oro, gli schiavi assumevano il ruolo dei padroni e venivano serviti. I Saturnalia avevano, tuttavia, anche un aspetto astronomico, in quanto si concludevano appena dopo il solstizio d’inverno, ossia nel momento in cui il Sole, arrestato il suo cammino lungo l’orizzonte, lo riprende in senso inverso: una rinascita figurata del Sole, che coincideva con un altro mito legato a Saturno, che lo vedeva morire nel giorno del solstizio per rinascere come un “dio bambino” subito dopo.
L’uguaglianza, in numero, fra i corpi celesti dotati di movimento proprio e i giorni che i Babilonesi avevano deciso di raggruppare in settimane, ispirati molto probabilmente dalla durata delle diverse fasi della Luna, pari a 7,4 giorni circa, rese naturale associare a ciascun giorno la divinità da cui avevano preso il nome i sette oggetti celesti. Lo stesso fecero in seguito i Greci e, di conseguenza, i Romani. Per questi ultimi, lunedì era Lunae dies, martedì Martis dies, mercoledì Mercuri dies, giovedì Iovis dies, venerdì Veneris dies, sabato Saturni dies e domenica Solis dies. Come si può notare, da questa terminologia sono derivati nella nostra lingua i nomi di tutti i giorni della settimana, a esclusione del sabato e della domenica. In realtà, furono già i Romani a mutare Saturni dies in Sabbătum, e Solis dies in Domini dies. La prima variazione si ebbe per effetto dell’influenza che gli ebrei cominciarono ad avere a Roma, a partire dal II secolo a.C.: Sabbătum deriva, infatti, proprio dall’ebraico shabbat, che significa “[giorno di] riposo”. La seconda avvenne, invece, più tardi, nel 383, per volontà dell’imperatore Teodosio I, che tre anni prima aveva promulgato un editto in cui sanciva che la religione ufficiale dell’Impero dovesse essere quella cristiana.
In conseguenza di questi due mutamenti, avvenuti ancora in epoca romana, tutte le lingue neolatine hanno perso l’associazione del sabato e della domenica con le divinità del mondo classico. Questa si è mantenuta soltanto nell’inglese, con Saturday e Sunday, e nell’olandese, con zaterdag e zondag. In tedesco, l’associazione è rimasta solo per la domenica, Sonntag, essendo il sabato, Samstag, derivato dallo shabbat. Anche nelle lingue scandinave, soltanto la domenica (søndag in danese e norvegese, söndag in svedese) è rimasta legata al Sole, mentre il sabato (lördag in svedese, lørdag in danese e norvegese) non ha nulla a che vedere con lo shabbat e il suo significato, “giorno del lavaggio”, rimanda all’abitudine dei vichinghi di lavarsi una volta la settimana, proprio in quello che alle origini era il giorno dedicato al dio Saturno. È interessante notare, a questo proposito, che i popoli dell’Europa settentrionale subirono l’influenza romana nell’associazione delle divinità ai giorni della settimana ma, fatta eccezione per la Luna e per il Sole, utilizzarono i loro dei. Così, a Marte sostituirono il dio Tyr, che di Marte manteneva la caratteristica di essere il dio della guerra, pur essendo anche il dio della giustizia, e martedì divenne nell’inglese arcaico Tiwesdaeg, ossia “il giorno di Tiw”, uno dei nomi con cui era chiamato Tyr. Da esso sarebbe derivato, successivamente, Tuesday. Anche nelle lingue scandinave, tirsdag in danese e norvegese e tisdag in svedese, rimane evidente l’associazione a Tyr. Meno diretta parrebbe la relazione col tedesco, Diensdag, e l’olandese, dinsdag, traducibili in “il giorno dell’assemblea”, se non si fosse a conoscenza del fatto che il dio della giustizia era considerato dai popoli del Nord Europa anche protettore delle assemblee fra gli uomini.
Mercurio, invece, fu sostituito col re degli dei: Wotan o Wodan, nell’antica mitologia tedesca, e Odino in quella norvegese. Mercoledì divenne dunque Wodnesdaeg, nell’inglese arcaico, ossia il “giorno di Wodan”, da cui sarebbe derivato Wednesday. Il legame col dio Wodan resta evidente anche nell’olandese woensdag, mentre lo scandinavo onsdag rimanda a Odino, il Wodan dei norvegesi. Di tale relazione si è persa invece ogni traccia nel tedesco Mittwoch, che deriva dal più antico mittavehha e significa “a metà della settimana”, poiché la chiesa tedesca impose questo nome nel tentativo di sradicare il ricordo della divinità pagana.
Giove, per i popoli del Nord, divenne Thor, divinità associata ai fulmini e il giorno di Giove è proprio il giorno di Thor sia nell’inglese, Thursday, sia nelle lingue scandinave, torsdag. Il nome Thor rimanda, non a caso, alla parola inglese thunder, che significa tuono e che in tedesco e in olandese si traduce rispettivamente in donner e donder, da cui i due termini Donnerstag e donderstag per questo giorno in tali lingue. Venere, infine, fu sostituita da Frigg, moglie di Odino. La sua associazione al venerdì è rimasta chiara ed evidente in tutte le lingue: Friday in inglese, Freitag in tedesco, fredag nelle lingue scandinave e vrijdag in olandese.