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I solstizi erano considerati eventi molto importanti dai popoli che vivevano nelle regioni di latitudine medio-alta, in cui la variazione fra la durata del giorno e della notte, nel corso dell’anno, era considerevole. Il solstizio d’inverno segnava l’inizio del momento in cui le giornate avrebbero ripreso ad allungarsi dopo un periodo dominato dall’oscurità. Questo “ritorno del sole”, oltre a essere fondamentale per le attività degli uomini, poteva essere letto anche in chiave mistica, in quanto rappresentava la sconfitta operata dal Sole sul mondo delle tenebre. Non è un caso che nell’antico tumulo di Newgrange in Irlanda, risalente al 5000 a.C., il lungo corridoio di accesso alla camera funeraria venga illuminato a ogni alba del solstizio d’inverno per associare, simbolicamente, alla ripresa di vitalità del Sole, il passaggio del defunto a una nuova esistenza ultraterrena. L’alba del solstizio d’estate segnava, invece, l’inizio del giorno più lungo dell’anno, il giorno in cui il Sole raggiungeva il massimo trionfo sulle tenebre. L’evento, tuttora celebrato nei paesi del Nord Europa come la festa di mezz’estate, Midsummer, era importantissimo e la devozione che gli antichi abitanti del nostro continente riservavano al solstizio d’estate trova testimonianza negli innumerevoli complessi megalitici, primo fra tutti quello di Stonehenge, nei pressi di Salisbury, in Inghilterra.

Per chi viveva, invece, nelle regioni comprese tra i tropici e l’equatore, l’evento che appariva più singolare era il giorno in cui i corpi non avevano ombra. Questo strano fenomeno si verifica quando il Sole raggiunge un’altezza sull’orizzonte pari a 90°, venendosi a trovare a mezzogiorno allo zenit1Dal Glossario: Zenit – Il termine deriva dall’arabo samt al-ra’s, che significa “direzione della testa”. Per questo motivo lo zenit corrisponde a una altezza sull’orizzonte di 90°., ossia esattamente sopra la testa di chi vive in quei luoghi. All’equatore, il Sole raggiunge lo zenit due volte l’anno, agli equinozi, mentre ai tropici questo accade una volta l’anno in corrispondenza del relativo solstizio, ossia intorno al 21 giugno per il tropico del Cancro e al 21 dicembre per il tropico del Capricorno. Nelle regioni comprese fra i tropici e l’equatore, il Sole raggiunge lo zenit in un giorno, che è tanto più prossimo al solstizio, quanto più il luogo è vicino al tropico e si sposta verso l’equinozio col diminuire del valore assoluto della latitudine.

L’ipotesi che esistesse un ordine superiore, che dal Cielo indicava agli uomini i periodi giusti per svolgere determinate attività, trovava ulteriore sostegno quando la presenza o l’assenza di determinate stelle nel cielo poteva essere associata all’inizio di periodi in cui erano più probabili eventi atmosferici di vitale importanza, come le piogge o l’aridità. È il caso, ad esempio, della stella Sirio, la cui levata eliaca nell’antico Egitto avveniva il 24 giugno in coincidenza con l’inizio della stagione delle piogge nell’Alto Nilo. A essa avrebbero fatto seguito la piena del fiume e il conseguente straripamento. Quest’ultimo era un fenomeno di vitale importanza per la sussistenza di quell’antica civiltà, ma aveva la portata e le conseguenze di una vera e propria catastrofe naturale. Tuttavia, grazie a Sirio, che come un “cane fedele” annunciava l’evento con un anticipo di qualche giorno, gli Egizi riuscivano a organizzare per tempo l’evacuazione delle regioni limitrofe al fiume. Fu proprio questa la ragione per cui gli Egizi vollero rappresentare Sopdet, la divinità che avevano associato alla stella Sirio, col geroglifico assegnato al cane e da questa loro scelta è derivato il nome, Cane Maggiore, della costellazione di cui Sirio è la stella più luminosa.

Se per gli Egizi Sirio era una stella benevola e fedele, non altrettanto si può dire dei Greci. Questi erano convinti che la levata eliaca di Sirio, che all’epoca e alla latitudine di Esiodo avveniva intorno alla metà di luglio, portasse con sé il clima caldo e secco dell’estate, come del resto indicato anche dal nome che avevano scelto per la stella, Seirios, e che ci è giunto attraverso il latino Sīrĭus, che significa proprio “bruciante” o “ardente”.
Oltre a provocare la siccità e a danneggiare i raccolti, le emanazioni deleterie della stella, che venivano associate all’intensità più o meno forte con cui essa sembrava scintillare, erano ritenute dai Greci responsabili dell’indebolimento degli uomini e dell’insorgere di epidemie di rabbia. Erano talmente sicuri di questo legame, che avevano addirittura coniato un termine per indicare la patologia legata alla riapparizione di Sirio nel cielo: astròbletos, ovvero “colpito dalla stella”.

In realtà, la povera Sirio non aveva alcuna colpa delle disgrazie che accadevano sulla Terra. Il suo scintillare era semplicemente dovuto al fatto che, essendo luminosissima, poteva risultare brillante anche nel cielo già chiaro dell’alba e i problemi che si scatenavano molto spesso sulle coltivazioni e sugli uomini erano dovuti alla semplice coincidenza temporale fra il suo apparire in cielo in levata eliaca e l’inizio del caldo intenso.
I Greci giunsero persino a convincersi che fosse Sirio a riscaldare il Sole, provocando il clima insopportabilmente afoso dell’estate, e anche i Romani vennero influenzati da questa credenza. Non a caso, in diverse immagini antiche che rappresentano la costellazione del Cane Maggiore, raggi di luce o aloni luminosi, che rimandano al disco solare, circondano la testa del Cane, ossia proprio la zona in cui si trova Sirio.
Possiamo trovare tuttora nel termine “canicola”, con cui siamo soliti indicare giornate caratterizzate da ondate di calore particolarmente intense e insopportabili, la traccia della convinzione che i Romani avevano ereditato dai Greci riguardo a Sirio: Canicula, che potremmo tradurre come “la cagnolina”, era, infatti, per loro la stella più luminosa della costellazione del Cane, Sirio, in levata eliaca.

Un altro termine, che rimanda a questa antica credenza, ma il cui uso è molto più limitato, è siriasis, una patologia febbrile che colpisce specialmente i bambini che si trovano esposti per lungo tempo all’azione del Sole.
Per prevenire le febbri e le malattie, che credevano provocate dalla riapparizione di Sirio nel cielo, i Romani erano soliti accompagnare la levata eliaca della stella con cerimonie in cui sacrificavano un cane, una pecora e del vino. La cattiva reputazione di Sirio a Roma non si limitava, tuttavia, al suo sorgere eliaco, ma sembrava accompagnare l’intero suo corso apparente attraverso il cielo notturno, originato per la verità dal moto di rivoluzione della Terra attorno al Sole. I Romani, infatti, avevano associato al tramonto eliaco di Sirio l’insorgere della malattia della ruggine del grano, provocata in realtà da un fungo di colore rossastro dall’effetto devastante, a cui avevano dato il nome di robigo, parola che in latino significa proprio “ruggine”. Per scongiurare lo scatenarsi del fungo, avevano istituito, in coincidenza col tramonto eliaco di Sirio, la cerimonia dei Robigalia, di cui Ovidio, poeta vissuto a cavallo dell’anno zero, fornisce un’accurata descrizione nel IV Libro dei Fasti: al termine di una processione di persone tutte vestite di bianco, il sacerdote, detto flamen quirinalis, giunto al bosco sacro, sacrificava una cagna e una pecora di due anni a Robigo, divinità che col fungo condivideva il nome.
Ritornando alla Grecia, ai versi 30-38 del XXII libro dell’Iliade possiamo trovare un’illustrazione drammaticamente efficace della fama nefasta di cui godeva Sirio presso quell’antico popolo:

[…] Primo lo vide
Precipitoso correre pel campo
Priamo, e da lungi folgorar, siccome
L’astro che cane d’Orion s’appella,
E precorre l’Autunno: scintillanti
Fra numerose stelle in densa notte
Manda i suoi raggi; splendissim’astro,
Ma luttuoso e di cocenti morbi
Ai miseri mortali apportatore.

Lo scudo di Achille, che brilla come Sirio, astro luminosissimo, ma portatore di lutto per i miseri mortali, è per Priamo, che lo vede da lontano, il terribile presagio della morte del figlio Ettore.
Vi sono luoghi sulla Terra, per la precisione quelli che hanno latitudine inferiore a -73°, e che si trovano pertanto nell’emisfero australe, a 27° di distanza dal polo sud, da cui Sirio non è mai vista sorgere né tramontare, e appare compiere, nel corso della notte, parte di una rotazione attorno al polo celeste meridionale, prolungamento ideale verso il cielo del polo sud terrestre. Per questo motivo, Sirio viene definita, in tali regioni antartiche, “circumpolare”.

In realtà, tutte le stelle sembrano ruotare nel cielo, in riflesso del moto della Terra attorno al proprio asse, ma la rotazione attorno a uno dei due poli celesti, che per l’emisfero boreale è, in questa epoca, pressoché coincidente con la posizione della stella polare, risulta chiaramente evidente soltanto per le stelle circumpolari, in quanto esse rimangono sempre sopra l’orizzonte dell’osservatore. Ai poli della Terra, tutte le stelle sono circumpolari; all’equatore, invece, si verifica la situazione opposta, ovvero nessuna stella è circumpolare e tutte le stelle sorgono e tramontano e per questa ragione vengono dette “occidue”, termine che deriva dal latino occiduus, che a sua volta trae origine dal verbo occidere, che significa proprio “tramontare”. È interessante notare come dal participio presente di tale verbo sia derivata la parola “occidente”, mentre “oriente” ha avuto origine dal participio presente di un altro verbo latino, orior, che significa “nascere”.

La Figura 2 permette di visualizzare la rotazione giornaliera, apparente, delle stelle nel cielo per un osservatore localizzato al polo nord, all’equatore, oppure in una regione di latitudine intermedia. Per quest’ultimo, una parte delle stelle è circumpolare, mentre l’altra è occidua e la frazione delle prime si fa, progressivamente, sempre più rara al diminuire del valore, assoluto, della latitudine del luogo di osservazione, ossia allontanandosi dai poli verso l’equatore.

Fig. 2. Il moto giornaliero apparente delle stelle per un osservatore (O) localizzato al polo nord, all’equatore e in una regione di latitudine intermedia (l≃45°). Il piano in grigio rappresenta l’orizzonte dell’osservatore (le stelle che si trovano sempre sotto di esso non sono mai visibili). Per l’osservatore a latitudine intermedia sono circumpolari solo le stelle che si trovano sopra C, occidue le stelle tra I e C e invisibili le stelle che si trovano sotto I.

I nostri antichi progenitori, che abitavano prevalentemente in regioni più prossime all’equatore che ai poli, videro nella scarsità delle stelle circumpolari, unita alla perfezione del loro moto, così evidentemente circolare, qualcosa di molto speciale che le rese di frequente oggetti celesti degni di una considerazione e di un rispetto particolare.
Oltre alle “stelle fisse”, cosiddette perché mantenevano immutate, nel corso dei mesi, le loro posizioni relative, gli uomini notarono fin dai tempi più remoti cinque “stelle mobili”. Da molto tempo sappiamo che non si trattava di stelle, ma dei pianeti visibili a occhio nudo, ovvero Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Nell’indicarli col nome di “pianeti”, conserviamo tuttora, inconsapevolmente, la traccia di quella che fu la loro caratteristica distintiva: i Greci li avevano definiti, infatti, plànētes astéres, ossia “stelle vagabonde”.