9. Epilogo storiografico
La formulazione di «un giudizio generale sul “mondo moderno”, la sua storia e il suo destino» è stata spesso il significato della discussione sul valore della cultura filosofica dell’umanesimo (Vasoli 2002, p. 71Vasoli C. (2002) Le filosofie del Rinascimento, Milano: Bruno Mondadori.). Basti a questo riguardo ricordare il giudizio di Friedrich Engels secondo il quale il Rinascimento rappresentava «il più grande progresso rivoluzionario che l’umanità avesse fin lì conosciuto» e come, nel 1972, Ernst Bloch aprisse il saggio sulla Filosofia del Rinascimento con questa affermazione: «l’alba di un nuovo giorno, uno di quei rari mattini che nella storia universale si contano sulle dita di una mano, fresco della freschezza di una classe emergente, in breve: il Rinascimento» (Bloch 1981, p. 212Bloch, E. (1981) Filosofia del Rinascimento, Bologna: Il Mulino.).
Sul senso complessivo delle più importanti interpretazioni delle filosofie dell’umanesimo hanno pesato aspetti legati alle vicende storiche e politiche del secolo scorso. Le ricerche di alcuni grandi intellettuali, in Italia e in Europa, partirono dall’urgenza di trovare risposte culturali tali da scongiurare ogni possibile ritorno al dramma del nazifascismo europeo da loro vissuto direttamente:
Di fronte al fascismo e al nazismo mentre esplode la crisi delle istituzioni politiche tradizionali, la coscienza europea, di matrice liberale, a salvaguardia della propria identità minacciata, stabilisce una linea difensiva imperniata nella storiografia, e costituisce, in chiave laica e metapolitica, una sorta di historia ecclesiastica della libertà dei moderni, pigliando le mosse, come sempre, dal Rinascimento (Ciliberto 1975, p. 363Ciliberto, M. (1975) Il Rinascimento, storia di un dibattito, Firenze: La Nuova Italia.).
Studiare Giovanni Pico, indagare la sua idea di libertà e di dignità umana, nel secondo dopoguerra non significava solo proporre nuove edizioni di alcune tra le opere più significative della tradizione culturale italiana. Al valore della ricerca storica si aggiungeva l’intento di scongiurare i pericoli di una cultura che nei campi di sterminio aveva bruciato, insieme a qualsiasi rispetto per la dignitas dell’uomo, l’illusione di una filosofia della storia tanto rassicurante quanto azzardata. A questo proposito Eugenio Garin scriveva:
è giusto non caricare la libertas o la iustitia di cui si legge nelle orazioni del Quattrocento dei significati che quei termini assunsero in seguito; ma è altrettanto giusto non dimenticare il modo in cui certi problemi storiografici vennero affrontati in Europa intorno agli anni trenta […] Libertà e tirannide, dignità dell’uomo e umanesimo, Medioevo e Rinascimento e origini del mondo moderno, nell’Europa fra le due guerre non erano argomenti neutri, né sfoghi solitari di voglie erudite: l’eco destata dalla lettura di certi testi di un Bruni o di un Rinuccini aveva un timbro oggi non facilmente recuperabile (Garin 1971, pp. LXII-LXIII4Garin E. (1971) Le prime ricerche di Hans Baron sul Quattrocento e la loro influenza fra le due guerre. In: Renaissance Studies in Honor of Hans Baron, Firenze: Sansoni.).
In sostanza: «in Italia si faceva dell’antifascismo ripensando Socrate o Pico della Mirandola» (Garin 1997, p. 365Garin, E. (1997) Intervista sull’intellettuale, M. Ajello, a cura di, Roma-Bari: Laterza.).
È questo il contesto nel quale emerse la necessità di ridiscutere i fondamenti stessi del fare filosofia e, in modo particolare, il rapporto tra il sapere filosofico e la storia. Appuntamento importante al riguardo fu il convegno di Firenze del 1956 su “Filosofia e Storia”; in quell’occasione, che coinvolse i più grandi intellettuali italiani, venne affrontata non solo una discussione sul metodo della storia della filosofia, ma anche e soprattutto una riflessione sui fondamenti stessi della filosofia, in particolare in relazione al sapere storico. L’intervento di Garin, poi ricompreso nel volumetto pubblicato da Laterza nel 1959 con il titolo La filosofia come sapere storico, insisteva sull’esigenza di un metodo storico e filologico; ma il rischio di una tale prospettiva – aveva replicato Giulio Preti – era quello di perdere la dimensione teoretica della storia della filosofia: «va bene la ricerca filologica, va bene l’indagine storica: ma nessuno di noi, fuori di qualche eccesso polemico contro la storia della filosofia “speculativa”, vuole veramente dimenticare che si è di fronte a pensatori, a filosofi – e che quella che si fa è storia della filosofia» (Preti 1956, pp. 357-3736Preti, G. (1956) Continuità ed “essenze” nella storia della filosofia, RCSF, XI(3-4): 359-373.). Impegno storico e impegno teoretico, filosofia e antifilosofia diventavano i termini opposti, al centro di una discussione dagli ampi esiti. La posizione di Paolo Rossi raccoglieva in parte le perplessità di Preti: il rischio di una filosofia come sapere storico era quello di ridursi a «una storiografia di tipo esclusivamente filologico», volta a «risolvere integralmente le filosofie del passato sul piano delle risposte a situazioni storiche determinate», finendo col rappresentare «il rovescio o l’altra faccia del dogmatismo della storiografia neoidealistica» (Rossi 1976, p. 5157Rossi, P. (1976) Intervista. In: V. Verra, a cura di, La filosofia dal ’45 ad oggi, Torino: Eri.).
Nell’articolo Sessanta anni dopo, Garin rievocava la polemica con Preti e con Enzo Paci: «a Preti e a Paci non interessano affatto né l’autenticità né l’autentica alterità. Importava sistemare Platone o Leibniz nel loro discorso, indicarne magari le contraddizioni, collocarli al loro posto, e soprattutto metterli al più presto “a posto” nella problematica attuale, poco importa se a loro del tutto estranea» (Garin 1990, pp. 152-1538Garin, E. (1990) La filosofia come sapere storico, Roma-Bari: Laterza.). Per Garin il problema era un altro e non quello di “sistemare” astrattamente un autore:
la nascita d’una filosofia è sempre corposamente “impura”; e le idee, e le loro sintesi, sono saldate alle cose […] la storia della filosofia è appunto questo andar ricercando, nel processo dell’umano lavoro, il moto delle idee, il nesso delle concezioni con le situazioni, e il loro variare, non per movimenti propri (idee da idee), ma in quel complesso gioco di bisogni, di richieste, di costruzioni, che costituiscono nel suo concreto ritmo temporale la vita degli uomini (Garin 1990, p. 78).
È dunque attraverso un lavoro di demistificazione atto a collocare le idee nella storia che l’intellettuale matura la necessaria «diffidenza per le concezioni generali, […] per i trapassi da un ismo all’altro, per tutte le forzature ideologiche». Si trattava – per Garin – di utilizzare certe indicazioni di metodo rintracciabili in Gramsci, di storicizzare «il più fedelmente possibile» un’opera, evitando di ricondurla a schemi concettuali estranei, e di sottrarla così a «scorrette operazioni ideologiche» (Garin 1974, p. 1759Garin, E. (1974) Intellettuali italiani del XX secolo, Roma: Editori Riuniti.). Fare storia della filosofia voleva dire «legare le vergini idee ai non sempre casti appetiti», anche se «certo questa non è la filosofia inutile e sublime» (Garin 1966, p. XIII10Garin, E. (1966) Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari: Laterza.). La storia che possiamo ricostruire non è dunque «la purissima logica» delle idee, ma la cronaca «di umani sforzi» e di quelle idee che non sono che «l’espressione sempre rinnovata dello sviluppo storico reale» (Garin 1966, p. XIII).
Oltre ai problemi legati al contesto storico-politico e alla discussione metodologica del rapporto tra storia e filosofia, la ricerca sul Rinascimento ha contribuito a una discussione strettamente filosofica del concetto di umanesimo. Il dibattito aperto dalla conferenza di Jean-Paul Sartre sul rapporto tra esistenzialismo e umanesimo e poi la pubblicazione del celebre Brief heideggeriano interessarono profondamente interpreti come Eugenio Garin ed Ernesto Grassi. La discussione rivela la densità e la pregnanza del “problema dell’umanesimo”, ovvero quello di una domanda sull’uomo moderno e sulla sua libertà, nella varietà dei modi in cui, a metà del Novecento, ci si è interrogati al riguardo. Soffermarsi su questi aspetti può aiutare anche a comprendere le ragioni dei diversi giudizi espressi sull’importanza dell’umanesimo all’interno della storia della filosofia, chiarendo come a determinarli, oltre a problemi storiografici precisi, siano concezioni diverse della filosofia e risposte differenti al bisogno d’interrogarsi sui destini dell’uomo moderno.
Nel 1946 Sartre pubblicava L’existentialisme est un humanisme e l’anno seguente usciva a Berna la lettera Uber den Humanismus con cui Martin Heidegger rispondeva a Jean Beaufret. La Lettera sull’umanismo di Heidegger uscì quasi contemporaneamente e nella stessa collana, intitolata Ueberlieferung und Auftrag e diretta da Ernesto Grassi, del volume di Eugenio Garin, Der italienische Humanismus. Nell’avvertenza all’edizione del 1994 de L’umanesimo italiano è Garin stesso a ricordare l’occasione della pubblicazione tedesca dell’opera. Ma è in una lettera del 16 febbraio 1978 a Saveria Chemotti (di cui si conserva la minuta al Fondo Garin della Scuola Normale) che Garin racconta come, «in qualche modo il saggio del ’47 fu poi per me una conclusione […]. Il saggio di Heidegger e il mio uscirono in parallelo, l’uno nella serie teoretica, l’altra in quella storica di una collana, Ueberlieferung und Auftrag» (Ciliberto 2009, p. X11Ciliberto, M. (2009) Interpretazioni del Rinascimento, Roma, Edizioni di storia e letteratura.). Secondo Michele Ciliberto il 1947 fu davvero una data di svolta nel percorso di Garin: da una posizione che era «incentrata sul primato religioso, cioè cristiano», fino alla pubblicazione del libro sull’umanesimo italiano, a una visione diversa, negli anni Cinquanta e Sessanta, che mette in primo piano il tema “civile”. È Gramsci, secondo Ciliberto, «a liberare definitivamente Garin dalla tentazione religiosa» (Ciliberto 2009, p. X).
Al dibattito sulle posizioni di Sartre e di Heidegger Eugenio Garin prese poi parte sia con l’articolo Quel Humanisme?, pubblicato nel 1968 sulla Revue Internationale de Philosophie, sia, nel 1998, su Belfagor con l’articolo Mezzo secolo dopo.