Immagine perfetta dei rischi della condizione umana in Pico, come si è detto, è quella di «coloro che si aggirano intorno alla terra e al mare e sempre vengono puniti dalla sferza divina» (Pico 1942, p. 307), ma l’idea di assoluta libertà ha anche un’altra faccia, altrettanto tragica, eppure salvifica: accanto alle bassezze che trasformano l’uomo in una bestia, si dà la scelta davvero libera del sapiente che tende alla verità attraverso un percorso teoretico e morale. Teoretico, perché parte da una domanda sui modi della conoscenza umana ed evolve nella formulazione di un diverso ordine dei saperi. Morale, perché è intorno all’idea di uomo e di virtù che Pico costruisce la concordia philosophorum e lo fa a partire da un’idea di filosofia intesa come unica attività nella quale l’uomo si realizza.
Per Pico la ricerca della verità coincide con quella del bene e del bello e termina nel superamento della dialettica tra soggetto e oggetto: il filosofo indaga con la filosofia naturale il mondo che lo circonda, domina gli istinti della propria natura con la filosofia morale e infine scopre in sé, come un proprio prodotto, la bellezza dell’ordine delle cose. Il perfezionamento etico dell’uomo e la conoscenza della natura si presuppongono a vicenda: il punto fondamentale però è che solo nella filosofia i due aspetti si congiungono. Nel Commento, come si è visto, il filosofo comprende come l’oggetto della sua conoscenza sia il pensiero stesso, ovvero il processo di riformulazione concettuale attraverso cui si reforma la realtà esterna, trasformando il sensibile nell’idea, il singolo in universale, l’oggetto esterno in concetto. Il processo della conoscenza umana parte dai “fantasmi” della mente, che provengono necessariamente dai sensi, ma poi sono l’immaginazione, la ragione e l’intelletto a portarli a sintesi e a plasmare per astrazione l’oggetto della conoscenza, con un’operazione attraverso la quale la mente riscopre dentro di sé, e da sé formato, l’ordine delle cose.
È per questo che l’uomo che asseconda solo i suoi appetiti, il bruto o il vegetale dell’Oratio, rappresenta qualcosa di più del semplice fallimento morale di un individuo: è una frattura profonda tra il mondo sensibile e quello intelligibile quella che si crea nell’abdicare dell’uomo alla moralità e alla conoscenza. Al contrario, nell’immagine del vero filosofo a realizzarsi non è solo la perfezione morale dell’individuo, ma è l’unione e la sintesi dei due mondi: solo in colui che sceglie la conoscenza e il bene si può stringere il nodo tra natura e pensiero, tra spirito e materia.
Nell’Oratio Pico descrive l’itinerario morale e conoscitivo che conduce l’uomo alla realizzazione di se stesso nella filosofia:
emulando in terra la vita dei Cherubini – scrive Pico – dominando con la scienza morale l’impeto delle passioni, disperdendo la tenebra della ragione con la dialettica, purifichiamo l’anima, quasi detergendone le sozzure dell’ignoranza e del vi-zio, perché gli affetti non si scatenino pazzamente né la ragione follemente deliri. Quindi nell’anima composta e purificata diffondiamo la luce della filosofia naturale recandola finalmente a perfezione con la conoscenza delle cose divine (Pico 1942, p. 113).
La virtù è il dominio dell’uomo su se stesso, è il pensiero che si impone sul corpo e trascende l’istinto di natura nell’obbedienza alla legge morale. La conoscenza della natura dipende da questa prima e fondamentale premessa: soltanto l’anima «composta e purificata» dalla morale, l’anima che ha imposto la propria legge a se stessa, può compiere la stessa operazione nei confronti della natura esterna.
Conoscenza, dominio di sé e investigazione della natura sono però possibili solo passando dalla dialettica, ovvero da un sapere che coincide con lo svolgimento stesso della filosofia. La dialettica in Pico serve a «disperdere la tenebra della ragione», è metodo di analisi, opera di chiarimento concettuale senza la quale il processo attraverso cui il pensiero riformula la natura stessa dell’uomo e di ciò che lo circonda non avrebbe senso. Senza il corretto uso della ragione il pensiero è destinato al delirio e alla follia delle passioni, per questo l’altro volto della libertà quasi eroica che permette all’uomo di scegliere la via della conoscenza è l’amara consapevolezza delle lacerazioni, dei vizi e dei dubbi che caratterizzano la vita umana. La filosofia da un lato è la cura e il balsamo per tutto questo, ma dall’altro essa si esplica e trova il proprio limite proprio nello stato conflittuale che caratterizza il mondo e la natura. Ed è proprio in questo contesto che torna nuovamente in Pico l’idea di natura come conflitto insieme al riferimento a Omero ed Eraclito:
la dialettica calmerà la ragione travagliata ansiosamente tra i contrasti aspri delle parole e i capziosi sillogismi. La filosofia naturale pacificherà le liti dell’opinione e i dissidi che travagliano, dividono e dilacerano variamente l’anima inquieta. Ma le acqueterà così da farci ricordare che la natura, come ha detto Eraclito, è figlia della guerra e per questo chiamata da Omero contesa (Pico 1942, p. 119).
A partire da questa contrapposizione tra l’inquieta ricerca che caratterizza la filosofia e la «stabile pace» della teologia diventa possibile comprendere la tensione morale che Pico pone quale vero compito del filosofo. In primo luogo la filosofia si esercita nel confronto di uomini tra uomini, nella dimensione pubblica della disputa, e ha il diritto di trascinare nello scontro delle opinioni umane «Dio, la natura e la morale»: lo scontro e il conflitto animano la ricerca filosofica e, come si è visto, senza umana discussione ogni filosofia resterebbe «torpidamente sonnacchiosa» (Pico 1942, p. 11). Così Pico:
a quelli che detestano questo tipo di disputa e questo metodo di discussione pubblica su Dio, la natura, la morale non dirò molto, dal momento che questo crimine, se di crimine si tratta, l’ho in comune con tanti grandi uomini, anzi con affermatissimi filosofi non solo della nostra, ma di quasi tutte le epoche, che sono stati sicurissimi che per raggiungere la conoscenza della verità che cercavano niente sarebbe servito di più che esercitarsi molto spesso nelle dispute. Infatti, come con la ginnastica del corpo le forze si consolidano, così in questa, come dire, palestra letteraria le forze dell’animo ne escono di gran lunga più vigorose e vitali (Pico 1942, pp. 134-136).
In secondo luogo Pico distingue nettamente lo spazio della ragione filosofica da quello della fede: si tratta di due dimensioni separate, soggette a logiche differenti. La filosofia si occupa del probabile e delle opinioni umane, la fede di verità indiscutibili, am-messo che ne esistano. Solo distinguendole è possibile riconoscere l’importanza di entrambe, in caso contrario non si dà filosofia e la stessa fede vacilla (Pico 2010b, pp. 83-851Pico, G. (2010b) Apologia, Autodifesa di Pico di fronte al tribunale dell’Inquisizione. Edizione a cura di P. E. Fornaciari. Firenze: Sismel Edizioni del Galluzzo.). Compito del filosofo è quello di svelare contraddizioni, rintracciare significati, cercare di spingersi dietro alla parola, ma si tratta di una ricerca che mantiene in sé tutta la tragicità dell’operare sempre provvisorio e caduco dell’architetto di Alberti.
Ridicola e sacrilega è la nostra temerità che si rivendica il giudizio sull’ordine universale, sulla sapienza divina che estende l’occhio della provvidenza ed il raggio della sua bontà, non all’utilità di un sol uomo, di una sola famiglia, di una sola città, ma a quella di tutto il mondo, e non per un secolo ma per tutti i secoli (Pico 2010b, p. 445).
È di nuovo il tempo l’elemento che condanna l’uomo a un sapere e a un agire irrimediabilmente fragili. L’ordine di tutte le cose, il senso della storia, il perché dei mutamenti e del divenire, tutto questo si svolge secondo tempi incomprensibili per l’uomo. Il filosofo di Pico, esattamente come l’architetto di Alberti, sa bene che non avrebbe senso opporsi al continuo corso della natura, pensare di poterne definire il senso, cercare di fissarne una volta per tutte le ragioni e le leggi. A entrambi resta però lo spazio di un giorno, un lasso di tempo finito in cui trasformare la follia delle proprie passioni in virtù, l’ignoto movimento delle stelle in umana congettura, i fantasmi della natura in prodotti del pensiero. Creatura di un giorno, umbratile e fragile, nella consapevolezza del suo essere finito l’uomo scopre una prospettiva sull’infinito: a partire dalla propria debolezza e temporalità può liberarsi dal dogma e dalle apparenze, può aprirsi finalmente alla dignità del cammino morale verso la sapienza in cui realizzarsi finalmente come armonia e sintesi di pensiero e natura.