Sotto la speranza e il limite, nella contesa della natura, l’uomo può plasmare la realtà e rimirarla in sé come un proprio prodotto: non può esaurire la verità, ma può approssimarsi sempre più nella ricerca del vero attraverso un tipo di conoscenza – imperfetta, ma che distingue lui da ogni altra creatura – che riflette nel suo procedere l’ordine stesso della realtà. Nella «inquisizione» della verità la ragione può procedere secondo «conveniente e necessario ordine» dalla sensibilità all’astrazione e rischiarare così ciò che nell’intelletto era come «oscuro lume e confusa cognizione» (Pico 1942, p. 544). Ma nell’esprimere e nel comunicare ciò che ha scoperto, la ragione deve seguire il senso contrario, discendendo nel suo modo di spiegarsi con lo stesso «scientifico ordine» che domina la realtà e inerisce alle cose stesse. Tra il procedere della ragione e il procedere della realtà vige dunque il medesimo ordine; la beatitudine rimane estranea alla natura propria dell’uomo, ma la conoscenza della realtà ha un fondamento solido nella capacità umana di creare un ordine nel molteplice, reformando la realtà, trasformando la «deformità della materia» in armonia di idee. L’uomo, che è copula mundi, amando la bellezza e l’ordine delle cose, cercandone il senso, producendone in sé la conoscenza, realizza infine quella unione, quella sintesi di spirito e materia per la quale è stato creato.

Nelle Disputationes questo percorso si delinea a suggerire le caratteristiche che definiscono i caratteri dell’esperienza: dai sensi non si procede se non seguendo la ragione, la comunicabilità dell’esperienza, la precisione. Accanto all’esperienza dei sensi resta poi l’esperienza umana, storica e biografica, linea guida di fondo del filosofo che desideri investigare la natura. La storia umana e quella dei saperi che si intrecciano, addirittura la storia personale diventa un bacino di esperienze dal quale dedurre – sempre secondo metodo e ragione – il senso delle stelle sopra Fiesole.

In Individuo e Cosmo Cassirer considerava le Disputationes adversus astrologiam divinatricem come il testo fondativo della scienza moderna: «Pico va oltre la mera critica dell’astrologia tracciando la netta linea di confine che separa i segni magici dell’astrologia da quelli intellettuali della matematica e della scienza matematica della natura. Da questo momento in poi è aperta la via per l’interpretazione della “scrittura cifrata della natura” tramite simboli fisico-matematici, che sono intesi allo stesso tempo come simboli che si presentano alla mente non più come potenze estranee, ma come sue proprie creazioni» (Cassirer 1927, p. 1331Cassirer, E. (1927) Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, Leipzig: Teubner (trad. it. 1935, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, Firenze: La Nuova Italia).). Questo superamento dell’immediatezza nella direzione del simbolico, che Cassirer ritrova nelle Disputationes, è, in verità, al centro di tutta la riflessione di Pico intorno al problema della conoscenza: dal Commento, all’Oratio, alle Disputationes è la libertà del soggetto che plasma se stesso e il mondo, riformandolo, portandolo a sintesi e infine comprendendolo come un proprio prodotto. Avviandosi alla conclusione delle Disputationes Pico si chiede: «se, come si è dimostrato, gli astrologi non hanno potuto afferrare la natura del cielo con la ragione, l’hanno forse scoperta mediante l’esperienza?» (Pico 1946, p. 456). E come avrebbero potuto farlo se in questo caso l’esperimento [experientia], ossia un’osservazione degli astri coerente con i principi dell’astrologia, è di per sé impossibile in quanto richiederebbe «qualcosa di infinito, non riducibile né a metodo né ad arte alcuna [nec ad artem nec methodum]?» (Pico 1946, p. 216). Già all’inizio dell’opera aveva criticato le basi stesse dell’astrologia divinatrice giudicandole insostenibili proprio perché gli esperimenti posti a garanzia della loro validità non avevano nulla di «congruo [consonum]» e di «costante [constans]» (Pico 1946, p. 43). La ragione, «unica forza in noi innata contro l’inganno», è la facoltà che, indagando la realtà delle cose, può con giudizio stabilire le condizioni di attendibilità dell’esperienza e dell’osservazione. Solo sulla base di tali condizioni è possibile definire quel concetto di vera causa a cui – come ha mostrato Cassirer – si riallacceranno Keplero e Newton, il primo citando direttamente proprio la critica all’astrologia di Pico (Cassirer 1927, p. 132).

Ma qual è il concetto proprio di esperienza cui pensa Pico? Prima della “moderna” separazione tra i campi del sapere, l’idea di esperienza elaborata dal filosofo tiene insieme osservazione della natura ed esperienza umana, sapere storico e riflessione morale. Il problema della scienza non può quindi essere trattato se non in relazione al primato della libertà umana e i metodi stessi della scienza sono inseparabili da quelli della ricerca storica e filosofica. Per dirla con Cassirer: l’idea di scienza di Pico si definisce sempre a partire da «un pathos etico» (Cassirer 1927, pp. 133-134).

L’aspetto costitutivo dell’idea di esperienza riguarda dunque, in primo luogo, il problema della sua comunicabilità. Se si tratta di esperienza intesa come osservazione della natura, la sua comunicabilità dipende proprio dal fatto che nell’esperimento c’è qualcosa «di congruo e di costante» e quindi di ripetibile. L’osservazione diretta è criterio di verifica e la ripetibilità della dimostrazione ne determina il grado di verità:

ho osservato – scrive Pico – quest’inverno, nella mia villa, in cui ho scritto queste pagine, ogni notevole mutamento del cielo, e, tenendo presenti i principi degli astrologi, in più di centotrenta giorni di continue osservazioni, mal mi incolga se ho trovato più di sei o sette giorni quali avevo previsto secondo le loro leggi (Pico 1946, p. 163).

Sei o sette giorni equivalgono per il filosofo a false coincidenze, statisticamente irrilevanti per definire con certezza la validità dell’osservazione condotta. Il problema della comunicabilità – e dell’accuratezza – non riguarda solo l’esperienza intesa come osservazione diretta della natura, ma si definisce con maggior chiarezza relativamente all’esperienza storica. È in rapporto alla storia del pensiero che una scienza – o una pseudo-scienza come nel caso dell’astrologia – definisce la propria origine e i propri presupposti di fondo. Qui, per Pico, è la filologia lo strumento dello scienziato. I maghi, per ignoranza o opportunismo, attribuiscono i libri Della vacca a Platone, i libri degli gnostici eterodossi a Zoroastro, quelli Sulle immagini necromantiche a Tommaso d’Aquino e ad Alberto Magno un libretto di Roberto di York; nel primo libro delle Disputationes l’elenco delle false attribuzioni denunciate da Pico non è certo breve. L’elemento importante è che per Pico l’analisi testuale è uno strumento necessario alla scienza: la filologia e la storia sono gli strumenti che permettono al filosofo di scoprire le contraddizioni, i punti critici e gli errori nello sviluppo storico di una teoria.

Vi è un’esperienza della natura che si svolge nel rapporto tra senso e ragione e vi è un’esperienza storica in cui l’elemento sensibile è sostituito dal segno, dal testo e dal contesto da ricostruire: in entrambi i casi è sempre il soggetto che ricostruisce secondo ragione l’oggetto della sua indagine.

Accanto alla natura e alla storia vi è infine un terzo luogo di esperienza, al quale non si giunge dai segni, attraverso i sensi addestrati dalla ragione; è un tipo di esperienza in cui si racchiude il valore morale della conoscenza, l’importanza del giudizio e della scelta, la bellezza propriamente umana di una conoscenza che il filosofo ricerca a partire dalla propria vita. L’esperienza biografica è stimolo alla ricerca filosofica – i rimproveri di Pico, nel secondo libro delle Disputationes, agli amici travolti dalle follie degli astrologi e quindi il bisogno “esistenziale” di demifisticarle – e bacino diretto di prove rivolte contro i maghi; le loro superstizioni si scontrano infatti non solo con i criteri dell’esperimento scientifico e con il rigore della ricerca storica, ma anche con quel tipo di ragionevolezza attraverso cui ogni uomo, guardando alla propria vi-ta, può distinguere un sapere vero da uno falso.

Nel De Ente et Uno il limite è il silenzio di fronte alla verità nella sua pienezza; nel Commento è la cecità che oscura l’apice della bellezza; nelle Disputationes è la distanza dalle stelle: il cielo è come uno specchio, scrive Pico, ma «lo specchio è troppo alto perché le immagini delle cose terrene possano arrivare fin lassù, troppo splendente perché il suo fulgore non accechi la nostra debolezza» (Pico 1946, p. 43). Una filosofia del limite dunque, in cui il problema dell’esperienza – intesa come conoscenza della natura, della storia e di sé – rimanda a quello della capacità dell’uomo di formare se stesso e la realtà, una capacità che se da una parte supera la distanza tra il soggetto della conoscenza e il suo oggetto, dall’altra deve conservarne la contraddizione. La capacità formativa dell’uomo riposa infatti sulla sua libertà e tale libertà non può darsi che nel conflitto, mai pacificato, tra l’uomo e la natura e tra l’uomo e se stesso. Non la «doppia alienazione» che Eugenio Garin leggeva in Heidegger e in Husserl (Garin 1968, p. 2692Garin, E. (1968) Quel Humanisme?, Revue Internationale de Philosophie, 22: 263-275.), ma di certo una dialettica in cui la tensione tra natura e cultura si esplica in tutta la sua portata: il divino camaleonte ha in sé anche i semi del male e il suo sguardo verso le stelle non può che scontrarsi sempre con il bagliore di uno specchio troppo lucente per i suoi occhi.