5. Esperienza e immaginazione
La libertà, l’est piuttosto che l’essenza dell’essere umano, sta in una scelta di conoscenza. E da questa scelta deriva la visione del cosmo e dell’uomo, l’idea di libertà che Pico difende e il suo modo di concepire il valore della filosofia e della storia del pensiero. Nell’Oratio come nel Commento, nel De Ente et Uno come nelle Disputationes, l’interesse di Pico si rivolge con intenti diversi e da prospettive differenti al rapporto tra sensibilità, ragione e intelletto: nell’Oratio è per difendere il valore della libertà; nel De Ente et Uno per dimostrare come dalla definizione dei diversi piani del sapere umano dipenda la possibilità della concordia philosophorum; nel Commento la stessa indagine serve a chiarire il contenuto filosofico della parola poetica; nelle Disputationes l’indicazione dei caratteri dell’esperienza sensibile nel quadro generale di una teoria della conoscenza umana è funzionale alla definizione di un’indagine della natura fondata sull’unione di senso e ragione.
Non si comprenderebbe il modo in cui Pico viene caratterizzando il problema dell’esperienza se non si partisse da qui: da un’analisi complessiva della sua teoria della conoscenza e dal suo modo particolare di intendere il rapporto tra le facoltà conoscitive dell’uomo. La natura umana è mossa da una «tensione verticale» (Pico 2012, p. 681Pico, G. (2012) Oration on the Dignity of Man. Edited by F. Borghesi, M. Papio, M. Riva. Cambridge: Cambridge University Press.) che coincide con i momenti dello slancio verso la conoscenza e con lo svolgersi della libertà umana: nell’Oratio la forma della sensibilità, isolata da ogni razionalità, corrisponde a uno stadio poco più che ferino dell’umanità, incapace di distinguersi da quella di qualsiasi altro animale e di risalire attraverso i momenti dell’eros alla pienezza della sua dignità. Per questo la spinta della ragione, il grado successivo alla forma della mera sensibilità, non solo conduce l’uomo verso una conoscenza più perfetta, ma soprattutto lo rende un animale «celeste», superiore alla bestialità di colui che si affida ai sensi senza cercare la guida della ragione. È solo nella pienezza della conoscenza intellettuale che l’uomo può tendere alla piena visione della verità.
Nell’uomo nascente il Padre ripose semi d’ogni specie e germi d’ogni vita. E secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali sarà pianta; se sensibili, sarà bruto; se razionali, diventerà animale celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. Ma se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre colui che fu posto sopra tutte le cose starà sopra tutte le cose (Pico 1942, p. 105).
Nell’intuizione intellettuale la visione dell’uomo si sposta dagli occhi alla mente; la visione sensibile resta sempre un momento necessario per la conoscenza delle cose: l’occhio, il vedere, il concetto di immagine assumono significati centrali nei contesti in cui si ritrovano nella filosofia di Pico.
Nel De Ente et Uno ritorna lo stesso percorso dell’Oratio: i livelli della conoscenza umana sono però definiti con un altro scopo, quello di ricomporre in un disegno unitario – il grande progetto della concordia philosophorum – l’intera storia del pensiero. Gli strumenti concettuali sono gli stessi e di nuovo è l’analisi del rapporto tra ragione e intelletto il punto di partenza, ma il problema si complica: l’oggetto non è più la libertà in quanto tale, ovvero la tensione che spinge l’uomo alla pienezza delle sue facoltà e quindi alla sua dignitas, ma è la possibilità di cogliere, attraverso la definizione dei registri della conoscenza, l’unità metastorica del sapere. Una unità che è trasmessa attraverso linguaggi storici, quindi fraintendibili e interpretabili. Per questo nel De Ente et Uno la ratio opera «purificando i nomi divini da ogni imperfezione terrena», mentre l’intelletto «denuncia l’inadeguatezza dei nomi (nominum arguit deficientiam)» ed esprime infine il limite del nostro conoscere (nostrae intelligentiae accusat infirmitatem) (Pico 2010, pp. 236-238).
Dal Commento erano emersi altri elementi della riflessione di Pico sul problema della conoscenza. In primo luogo, la «cognizione della natura delle cose» corrisponde al passaggio che attraverso Eros – un desiderio che al pari della bellezza appartiene solo all’uomo e non a Dio, rimprovera Pico a Ficino – si compie risalendo «per ordinati gradi» dalla bellezza sensibile alla bellezza intelligibile. Il rapporto sensibilità-ragione-intelletto si complica nei processi dell’unica facoltà che permette il passaggio dal sensibile all’intelligibile, vale a dire l’immaginazione. Senza fantasmi la mente dell’uomo – che è «complesso» e «sintesi» del mondo intellegibile, celeste e terrestre – sarebbe vuota. «Per l’acume dei sensi, per l’indagine della ragione, per la luce dell’intelletto» – si legge nell’Oratio – l’uomo è interprete della natura e creatore di se stesso. Nel Commento aveva insistito sui «fantasmi» della mente, che provengono necessariamente dagli occhi e mediante l’immaginazione, la ragione e l’intelletto giungono a sintesi e a plasmare l’immagine della verità, con un’operazione attraverso la quale la mente riscopre dentro di sé, e da sé formato, l’ordine di tutte le cose. Nel Commento, infatti, il passaggio dalla conoscenza legata ai sensi a quella puramente intellettuale segna il mo-mento in cui la mente scopre in se stessa, dopo averlo purificato con l’immaginazione e la ragione, l’oggetto che prima le stava da-vanti: «in questa universal cognizione l’anima come in cosa da lei fabricata si diletta […] e in lei el lume della vera beltà, come lume di sole sotto acqua, vede» (Pico 1942, p. 5792Pico, G. (1942) De Hominis dignitate, Heptaplus, De Ente et Uno e scritti vari. Edizione a cura di E. Garin. Firenze: Vallecchi.). Ma è sempre un’intuizione morale a guidare il ragionamento di Pico. Lo scopo dell’uomo nel mondo è quello di ammirarne la bellezza – «pulchritudinem amaret» aveva scritto Pico nell’Oratio – e per ammirare le cose è necessario conoscerle. Nel Commento distingue un desiderio naturale che riguarda «le creature che non hanno cognizione» – ed è quello che spinge ogni creatura ad amare dio – e un secondo tipo di desiderio che «non è se non circa le cose conosciute da chi desidera» (Pico 1942, p. 491). Nel sesto capitolo del secondo libro del Commento, così chiarisce la questione:
non si desidera la cosa se non poiché è conosciuta, e da’ filosofi è sottilmente dichiarato come el conoscere le cose è un possederle, donde segue quel detto vulgato di Aristotele, che l’anima nostra è tutte le cose perché ogni cosa cognosce (Pico 1942, p. 492).
La conoscenza delle cose nasce dal desiderio e il desiderio viene da una specie di precognizione dell’oggetto: per desiderare di conoscere la natura delle cose l’uomo deve già possederne «in qualche modo» i semi. Per questo in lui il Creatore ha posto «semi d’ogni specie e germi d’ogni vita», aveva scritto nell’Oratio: l’uomo può scegliere la propria forma perché la sua anima può conoscere – e quindi essere – tutto. L’intuizione intellettuale in cui culmina il percorso tracciato nell’Oratio e nel De Ente et Uno è una particolare forma di visione a cui l’uomo è spinto da Amore, inteso come desiderio di possedere una bellezza altra da sé. L’idea di bellezza intellettuale, che è armonia d’idee, rappresenta quindi per Pico la forma più alta di conoscenza, un sapere al quale però non si può giungere che a partire dal visum. «Da una sola potenza conoscitiva nasce amore, cioè dal viso […] e muovesi per questo Plotino a credere che Eros, che in greco significa amore, si derivi da questa dizione orasis che significa visione» (Pico 1942, p. 497). È una duplice visione quella che interessa a Pico: da un lato quella dell’occhio umano che guarda alle cose sensibili, dall’altro quella intellettuale in cui si realizza la perfezione della conoscenza umana. Così scrive nel Commento:
ma, direbbe uno, se bellezza è solo nelle cose che il viso comprende, come si può attribuire alle idee, che è natura del tutto invisibile? Per dichiarazione di questo dubbio, dal quale discende el fundamento di questa materia, è da notare che sono dua visi, l’uno corporale e l’altro incorporale; el primo è quello che comunemente si chiama viso, el quale dice Aristotele essere da noi amato sopra tutti gli altri sensi. L’altro è quella potenza dell’anima per la quale, nel penultimo capitolo del primo libro, fu detto noi avere convenienza cogli Angeli (Pico 1942, p. 497).
In entrambi i casi il desiderio di cogliere l’armonia delle forme guida la visione dell’uomo verso la bellezza. «Le menti sono come occhi», esemplifica nell’Heptaplus, e «ciò che è l’occhio nel mondo corporeo è la mente nel campo spirituale» (Pico 1942, p. 289). Il concetto enigmatico di intuizione intellettuale è quindi modellato sul processo della vista: così come l’occhio non vede senza la luce, l’intelletto non vede senza le idee. La visione sensibile non è però separata dalla ragione e dall’intelletto: può esservi una sensibilità fine a se stessa, che è quella di quelle anime che «mendicano la scienza delle cose da’ sensi». È però altrettanto vero che è proprio il desiderio della bellezza sensibile – la «via amatoria» – ciò che «eccita nell’anima memoria della parte intellettuale» e che conduce alla visione più perfetta, quella dell’armonia delle idee (Pi-co 1942, p. 481). Perché questo accada, la ratio deve guidare l’esperienza sensibile. Ciò è possibile perché la ragione, essendo posta «come uno mezzo fra gli estremi», «ora a l’una parte, cioè al senso inclinandosi, ora all’altra, cioè allo intelletto elevandosi, a’ desideri dell’una e dell’altra per propria elezione può accostarsi» (Pico 1942, p. 494). Il concetto di elezione è centrale. Qui sta la libertà che guida la conoscenza: l’uomo può scegliere di governare o di farsi governare dai sensi. Di nuovo è un’istanza etica a condurre il ragionamento di Pico sulla conoscenza, di nuovo si considera la libertà dell’uomo, la sua capacità di formare se stesso e di realizzare la propria dignità.