Delle quattro lettere polemiche che Antonio Cittadini inviò tra il 1491 e il 1492 due sole ebbero una vera e propria replica da Pico; della risposta alla terza lettera restano solo gli appunti a margine della missiva, pubblicati nelle edizioni di Basilea dell’Opera di Pico del 1557 e del 1572 e non è documentata né la stesura di un testo definitivo in risposta, né l’effettivo recapito della replica al proprio corrispondente. Non pago delle risposte o irritato dalla mancata reazione alla terza lettera, il Cittadini compose una quarta lettera, alla quale si incaricherà di rispondere Gian Francesco Pico, dopo la morte dello zio.
Lo scontro col Cittadini non aggiunge spessore teorico a quanto già affidato al trattato. Si tratta perlopiù di chiarimenti utili, dai quali emerge un tentativo di motivare e spiegare ulteriormente le posizioni già assunte. C’è poi un’attenzione maggiore e più esplicita per la filosofia tomista, nel tentativo di Pico di difendere le proprie tesi argomentandole attraverso l’orientamento filosofico del proprio interlocutore. Questa scelta, se da un lato gli poteva per-mettere di rendere più efficaci le proprie risposte alle obiezioni del Cittadini, dall’altro gli consentiva di sviluppare temi che nel De Ente et Uno aveva potuto solo accennare.
Le principali obiezioni che il Cittadini muove a Pico possono essere così riassunte:
- 1) il titolo del trattato è inappropriato;
- 2) non è corretto affermare che per tutti i (neo)platonici Dio sia superiore all’Ente;
- 3) è sbagliato sostenere che l’Uno, per Platone, sia superiore all’Ente;
- 4) non si può attribuire ad Aristotele la tesi secondo la quale Dio non sia l’Ente.
La risposta di Pico alla prima obiezione è quasi sprezzante: ogni libro ha un titolo e un proemio, il proemio chiarisce il senso del titolo e se il titolo dovesse essere esaustivo del contenuto, allora libro e titolo sarebbero la stessa cosa.
Quanto alle altre obiezioni, tutte muovono da due fraintendimenti generali, l’uno di ordine metodologico, l’altro teorico: Antonio Cittadini assolutizza i singoli momenti dell’ermeneutica pichiana stravolgendone così il senso complessivo; inoltre dimostra di non considerare la distinzione filologica e concettuale tra ens ed esse, che è il vero grande problema del De Ente et Uno. Al di là dei «cavilli puerili» (Pico 2010, p. 3301Pico, G. (2010) Dell’Ente e dell’Uno. Edizione a cura di R. Ebgi. Milano: Bompiani.) della sottile argomentazione del medico faentino e al di là dei toni, a tratti liquidatori e sprezzanti, delle risposte alle obiezioni, ciò che emerge dalle lettere di Pico e che marca la distanza culturale ed ermeneutica tra i due interlocutori è ancora una volta, e in maniera particolarmente evidente, la contrapposizione tra un’interpretazione che poggia sull’unilateralità di una concezione e una visione che fa leva sulla pluralità e sulle differenze. La difesa a oltranza della concezione peripatetica-tomista che, per il fatto di essere vera, contraddice, per Cittadini, tutte le altre, e un’analisi, quella di Pico, che vuole precisamente smontare, opponendo auctoritates ad auctoritates, temi a temi, livelli argomentativi a livelli argomentativi, aristotelici ad aristotelici, platonici a platonici, la possibilità stessa di un esito assolutamente univoco della discussione sull’ente e sull’uno e, indirettamente, su Dio e sulla conoscenza umana.
A rendere esemplare questa discussione è proprio la radicale divergenza metodologica e “ideologica” tra i due interlocutori, a fronte di fonti autoritative condivise. Una condivisione non di rado ostentata, almeno da parte di Pico, proprio al fine di dare massima evidenza all’irriducibile diversità della propria prospettiva rispetto a quella del suo corrispondente. Ma quello che più importa è che da questa modalità interpretativa e argomentativa emerge una posizione, quella pichiana, certamente disomogenea rispetto a quella più comune tra gli umanisti italiani, spesso propalatori di un sapere perenne fondato su un prisca philosophia, che riconosceva in Platone il proprio più completo dispiegamento; ed emerge altresì il ricorso a fonti e a uno stylus argomentativo tanto lontani da quelli dei platonici laurenziani, quanto vicini, almeno in apparenza, a quelli del Cittadini. Ma emerge anche, e più ancora, l’affinamento di un metodo storico e critico che mostra tutta l’obsolescenza della scolastica tardo-quattrocentesca e dimostra non solo la maggiore padronanza delle fonti e di una filologia acuta e arguta per esaminarle, ma anche quell’originalità che manca totalmente al Peripateticus Miles, originalità che deriva proprio dall’applicazione dei criteri di un’ermeneutica affatto “moderna”, ove con i termini “moderno” e “modernità” si intenda la discontinuità rispetto ai sistemi teologici, epistemologici e antropologici medievali.
Una “modernità” che, diversamente da quella del Bruni, di Ficino, di Landino, non propone una revolutio orientata in direzione dell’antico, ma che da una combinatoria di tradizioni, antiche e recentiores, oculatamente scomposte e disarticolate in una successioni di argomenti e di tesi, trae le pietre per la costruzione di un edificio filosofico e culturale a tutti gli effetti nuovo.
Al primo argomento polemico del Cittadini – l’autore del De Ente et Uno ha erroneamente attribuito agli accademici (i neoplatonici) l’idea che Dio, per Platone, non sia ente – Pico ribatte dimostrando come il neoplatonismo si restringa, per il Peripateticus Miles, ignorante di greco, al solo Temistio, accessibile attraverso la Parafrasi latina di Ermolao Barbaro (Pico 2010, p. 328). All’opinione di quell’unico neoplatonico, Pico oppone una tradizione più sfaccettata e articolata, che va da Siriano a Proclo, Plotino, Amelio, Giamblico e che, ciò nondimeno, difende con voce unanime l’alterità di Dio dall’Ente. Un accordo – rincara con sprezzante, umanistica, allusione all’incompetenza grammaticale del Cittadini e alla conseguente impossibilità di accedere alla littera delle sue stesse fonti – «notissimum omnibus qui platonica legerunt» (Pico 2010, p. 290).
La pluralità degli auctores rivendicata da Pico moltiplica lo spettro delle interpretazioni attraverso la «diversitas» dei piani argomentativi. Non io, ma «rudimenta haec et quasi incunabula» del platonismo – afferma nella risposta – autorizzano a ritenere che Dio tolleri di essere definito Ente e autorizzano altresì a rifiutare questa identificazione. In quanto exemplar di enti reali – Dio è infatti mo-dello dell’uomo, del cavallo o del leone – la definizione di Ente gli corrisponde. Ma poiché non è meno vero che nessun aspetto accomuni Dio al leone, al cavallo, all’uomo o a qualunque altro essere creato e che nulla esista fuori di lui, è corretto ammettere che «appellationem omnem entis excedat» e riconoscerlo, con lo Pseudo-Dionigi, al di là di ogni definizione (nomen) e di ogni nozione (opinio) (Pico 2010). Non è una doppia verità intorno a Dio quella che Pico vuole affermare; è semmai l’impossibilità di una definizione e di un concetto assolutamente veri e tali da contraddire tutti gli altri, che gli fa riproporre, contro il tomismo di scuola del suo interlocutore, la filosofia dionisiana.
Ma ciò che sta a cuore a Pico non è tanto contrapporre la mistica dello Pseudo-Dionigi al tomismo, bensì riconoscere, proprio nell’ineffabilità e nell’inconoscibilità di Dio, la pluralità delle definizioni e delle concezioni che ammette senza esaurirsi in nessuna. Ed è proprio l’autorità di Tommaso che Pico chiama in causa, nella risposta alle seconde obiezioni, quando, proponendo la distinzione tra ens (l’essenza o la quidditas dei moderni, l’appartenenza a una determinata specie) ed est (l’esistenza, ciò per cui una cosa è), torna a ribadire, ma questa volta con il De Ente et Essentia, con la Quaestio disputata de malo e con Aristotele, che Dio, esistenza pura, non può essere detto essenza (quidnam sit) (Pico 2010, p. 323).
Da maestro di eloquenza, oltre che di filosofia, come aveva dimostrato di essere nel corso della disputa de genere dicendi philosophorum con Ermolao Barbaro alla metà degli anni Ottanta, Pico brandisce gli stessi autori del Cittadini contro l’argomentazione delle seconde obiezioni: poiché con il termine ens si indica l’essenza, mentre con il verbo est si indica l’esistenza, Dio non è ens; ed è quindi lo stesso Tommaso a sostenere letteralmente – scrive Pico – che «ente e essere non si implicano vicendevolmente, ma riguardano quaestiones completamente diverse [an sit e quid-nam sit] e tra loro slegate» (Pico 2010, pp. 323-325). Le fonti tomiste e il procedimento dell’inquisitio scolastica dell’avversario, ai quali Pico sembrerebbe ammiccare, non nascondono affatto il senso, profondamente umanistico, del dissenso metodologico rispetto all’avversario: non è la maggiore o minore capziosità dell’argomentazione, né questa o quella fonte a fare la differenza, ma è l’assoluta mancanza, da parte del Cittadini, di uno strumento filologico e critico adeguato a interpretare gli autori che contrappone: «poiché non hai potuto attingere ai commenti platonici – scrive Pico – e nemmeno ai peripatetici greci perché non conosci il greco, ti condurrò attraverso le parole e le tesi degli autori latini e principalmente di Tommaso, che ti è familiare, alla comprensione dei platonici, dei quali tratto nel mio libro» (Pico 2010, p. 321).
Ancora una volta, per Pico, il problema non è difendere Platone da Aristotele o Temistio da Simplicio, ma trovare una chiave in grado di aprire uno spazio concettuale in grado di dare cittadinanza a posizioni particolari, tra loro diverse, ma non contraddittorie. Come la teologia negativa dello Pseudo-Dionigi non è, nella risposta alle prime obiezioni, l’auctoritas che confuta tutte le altre, ma quella più versatile, in grado di elidere la contraddittorietà di concezioni e definizioni pur diverse, così, nella risposta alle seconde obiezioni, sul fronte di una possibile determinazione concettuale di Dio, appare a Pico più appropriato l’uso del concetto di Uno e non perché Dio sia, unilateralmente, l’Uno, ma poiché in tal modo non si pone una vera determinazione [quid sit], ma si indica piuttosto un modo d’essere [quomodo sit].
Anche le annotazioni a margine delle terze obiezioni ripropongono, da parte di Pico, motivi dionisiani. Ma ciò che è più interessante, nelle annotazioni immediate e tranchantes in vista della terza replica che non venne probabilmente né ultimata né trasmessa, è l’insistenza, ancora più forte di quanto non fosse nelle risposte precedenti, su aggettivi, pronomi, avverbi, locuzioni quali plerusque, aliquando, fortior, non omni modo sed aliquo modo, secundum rem e secundum rationem. Un lessico che segnala preferenze, occorrenze, casi più numerosi, consensi più ampi, i quali portano Pico non a sposare un’interpretazione, ma a individuare in alcune interpretazioni – quella dionisiana ad esempio – uno schema ermeneutico più duttile di altri, un denominatore comune, seppur minimo, sul quale superare molte (ovviamente non tutte) le opposizioni. Ma a questo punto la distanza tra i due interlocutori, espressa in termini teorici, metafisici, metodologici, rende evidente la dimensione peculiarmente antropologica e per ciò stesso gnoseologica di un possibile discorso su Dio, sull’Uno e sull’Ente. Mentre per il Cittadini interrogarsi su Dio significa affermarne positiva-mente qualcosa, per Pico la questione è quella di chiedersi «cosa si potrà o si dovrà dirne» (Pico 2010, pp. 343-365) ed è sulla base di questa domanda che il Conte arriva a riconoscere un limite ultimo alla conoscenza di Dio che la mente umana può avere, un limite che coincide con il riconoscimento della trascendenza divina. Ave-va visto giusto Eugenio Garin nel rintracciare in questo atteggiamento filosofico di Pico «quello spirito nuovo per cui il problema di Dio è unicamente problema della conoscenza di Dio, del rapporto tra Uomo e Dio» (Garin 1937, p. 1192Garin, E. (1937) Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, Firenze: Le Monnier.). Un problema che si struttura in due dimensioni: quella del rapporto tra l’individuo e Dio e quella storico-filosofica del binomio Platone e Aristotele, un binomio che per Pico andava ricomposto in un unico e rinnovato discorso.