1. Comparatio e differentia
Il 27 novembre 1492 Giovanni Pico annunciava al nipote Gian Francesco il proprio passaggio a Ferrara, una volta districatosi tra quei graecorum librorum fascibus sui quali stava lavorando nella biblioteca medicea privata (Gentile 1994b, pp. 85-1011Gentile, S. (1994b) Pico e la biblioteca medicea privata. In: P. Viti, a cura di, Pico, Poliziano e l’Umanesimo di fine Quattrocento, Firenze: Olschki, pp. 85-101.). Con i codici che Giano Lascaris aveva portato a Firenze si aggiungeva un tassello importante alla grande stagione del recupero delle fonti greche, iniziata con le prime ricerche di Poggio Bracciolini e sodali (Gentile 2002, pp. 70-922Gentile, S. (2002) Il ritorno delle culture classiche. In: C. Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, Milano: Bruno Mondadori, pp. 70-92.). Il recupero di opere scientifiche, letterarie e di tutta la tradizione filosofica platonica e neoplatonica, mentre sgretolava l’edificio del sapere medievale, faceva maturare in filosofi come Pico quella «coscienza di una dualità» (Toussaint 1995, p. 153Toussaint, S. (1995) L’Esprit du Quattrocento: Le De Ente et Uno de Pic de la Mirandole, Paris: Honoré Champion.) che era consapevolezza della pluralità dei punti di vista possibili e del carattere molteplice della tradizione. Di fronte al divenire nel tempo delle civiltà e delle culture, la concordia delle tradizioni culturali e teologali del passato remoto e recente, lungi dall’essere, per Pico, un progetto erudito e rassicurante, rappresenta l’estremo tentativo di salvare una precisa idea di verità da un divenire storico che trascina con sé i linguaggi e i saperi degli uomini.
Si era appena conclusa la stagione delle comparationes bizantine, le quali, a partire dal confronto tra le due massime autorità del pensiero greco – Platone e Aristotele – avevano tentato una fondazione unitaria e universale della filosofia. Una stagione iniziata nel 1439 con l’opera di Giorgio Gemisto Pletone Peri on Aristoteles pros Platona diapheretai e proseguita con la replica di Giorgio Gennadio Scholario in Difesa di Aristotele (1443), contro la quale era intervenuto di nuovo il filosofo di Mistrà con il Contra Scholarii pro Aristotele obiectiones. Due anni dopo Giorgio da Trebisonda avrebbe scritto quella Comparatio philosophorum Platonis et Aristotelis nella quale Eugenio Garin ha visto l’esplodere della «guerra implacabile tra l’Oriente islamico e l’Occidente cristiano» (Garin 1973, p. 1174Garin, E. (1973) Il platonismo come ideologia della sovversione europea. La polemica antiplatonica di Giorgio Trapezunzio. In: E. Hora, E. Kessler, eds., Studia Humanitatis. Ernesto Grassi zum 70. Geburtstag, Munich: W. Fink, pp. 113-120.) e nel 1459 Bessarione avrebbe messo in circolazione la prima delle quattro redazioni dell’In calumniatorem Platonis; un testo, quello di Bessarione, nel quale l’eccellenza del pensiero platonico era dimostrata anche a partire dalla conciliabilità sia con la dottrina cristiana, sia con la filosofia di Aristotele. Teodoro di Gaza, già autore del Adversus Plethonem pro Aristotele de substantia, dietro sollecitazione del Bessarione, intervenne nella polemica con il De Fato, nel quale tentava di mostrare l’accordo tra Platone e Aristotele a partire dal motivo della responsabilità umana e contro il rigido determinismo di Pletone. Marsilio Ficino, che aveva ricevuto da Bessarione l’In calumniatorem Platonis, reagì con entusiasmo leggendovi un platonismo vicino alla fede più di quanto non gli apparisse l’Aristotele cristianizzato dai teologi parigini.
La disputa tra platonici e aristotelici e gli iterati tentativi di dimostrare la concordia dei due filosofi greci, sotto l’egida vuoi dell’uno vuoi dell’altro, non si risolse in un confronto storico e filologico ma portò con sé, tra le altre, due questioni centra- li nella discussione italiana tardo-quattrocentesca: il motivo – mitico, allegorico, simbolico – dell’origine e quello – più squisitamente ontologico ed epistemologico – della realtà e dell’infallibilità della conoscenza.
La conciliabilità delle filosofie antiche implicava l’immagine di una prisca sapientia, anteriore alle divisioni e alle dissonanze, sede di una verità originaria e perenne, dissimulata nel tempo attraverso la pluralità e la particolarità dei culti e delle culture. Una verità intera e integra, che era stata appannaggio di un’umanità anteriore al peccato e alla decadenza. Sull’altro piano, il confronto tra platonismo e aristotelismo metteva in primo piano il tema delle facoltà conoscitive e delle condizioni per giudizi veri e giudizi falsi.
Se non c’è dubbio che il De Platonicae atque Aristotelicae philosophiae differentiis di Pletone sia stato uno scritto decisivo per il platonismo del Quattrocento e un riferimento ineludibile anche di Pico, è altrettanto indubitabile la diversa impostazione del problema della concordia da parte del filosofo di Mirandola. La questione affrontata da Pletone – difensore, da platonico convinto qual era, dell’infallibilità dell’intuizione noetica – non era di ordine critico, bensì ontologico. Il valore di verità dell’intuizione è garanzia incontrovertibile dell’oggettività del conoscere. Accolta questa premessa platonica, ogni difetto conoscitivo e, di conseguenza, ogni contrasto filosofico o teologico, risiede, per Pletone, in contingenze particolari e individuali che intervengono nelle fasi successive dell’itinerario conoscitivo e argomentativo (Masai 1956, pp. 147-1485Masai, F. (1956) Pléthon et le Platonisme de Mistra, Paris: Les Belles Lettres.). La divergenza dei giudizi attesta la divergenza delle opinioni e questa, a propria volta, è testimonianza di errore. Ne consegue che il confronto tra la pluralità delle opinioni e dei giudizi permette di isolare variabili e costanti e individuare, nelle prime, gli errori, nelle altre, il persistere, identico, della verità.
Questa aperta da Pletone per affrontare il motivo del consensus hominum era una via diversa rispetto a quella imboccata dall’umanista italiano Lorenzo Valla. Per Valla la verità non sta nelle res ma piuttosto in animo nostro: nel giudizio di chi conosce e, per meglio dire, nell’atteggiamento di fronte agli oggetti indagati (Valla 1982, pp. 19-206Valla, L. (1982) Repastinatio dialectice ac philosophice. Edizione a cura di G. Zippel. Padova: Antenore.). E questo, perché pretendere di raggiungere con il pensiero le verità ultime che sfuggono all’esperienza delle cose sarebbe come pretendere di dare la scalata al cielo. E il temerario che pretendesse di farlo patirebbe la stessa sorte toccata ai Giganti, precipitati all’inferno dal potente braccio di Dio, geloso dei propri segreti (Valla 1962, p. 10097Valla, L. (1962) Opera omnia, Torino: Bottega d’Erasmo.).
Per Pletone il consenso non è l’alternativa o il surrogato di una verità quantomeno inaccessibile, ma è l’evidenza di ciò che permane identico al variare delle opinioni e nonostante l’accidens dell’errore. L’accordo tra diverse tradizioni filosofiche su precise dottrine attesta non la veridicità di questo o quel filosofo, ma quella delle dottrine sulle quali gli uomini hanno consentito, nonostante i molteplici giudizi errati che hanno espresso. La concordanza tra Aristotele e Platone e, dunque, per il platonico di Mistrà, la presenza di tesi corrette anche entro il corpus aristotelicum non è indicativa dell’attendibilità della tradizione peripatetica, ma indica piuttosto il discrimine oltre il quale l’interferenza di fattori accidentali forvianti non può spingersi. Il consenso non è né causa, né strumento della verità; ne è piuttosto l’effetto. Dal canto suo, la ragione non è coessenziale al vero, ma è il mezzo (medium) che permette di riconoscerlo attraverso una comparatio tra dottrine diverse, tale da separare punti di contatto e differentiae. La filologia e la storia diventano, nel De differentiis, strumenti essenziali della conoscenza filosofica (Masai 1956, pp. 147-149), ma diversamente da quanto non sia nella Repastinatio dialectice ac philosophice valliana, non perché la verità abbia sede nel mondo degli uomini o in quello del pensiero, ma perché filosofia e storia sono gli ambiti entro i quali la ragione si esercita nel confronto con le diverse tradizioni alla ricerca di quei minima prima che confermano la validità dei giudizi. È la dottrina platonica delle idee a offrire a Pletone la soluzione al problema di un nesso stabile che collega intelletto e realtà sensibile in modo da garantire, pur nella pletora delle opinioni discordanti, la validità della conoscenza umana e la capacità di spiegare i fenomeni entro il divenire temporale. Ma è l’identificazione del principio primo con il Bene il fondamento ontologico della possibilità umana di avere una conoscenza certa della natura. Per questo l’obiettivo del filosofo è quello di stabilire un ordine ontologico fondato sulla perfezione di un principio primo, dal quale dedurre la razionalità del cosmo e delle sue leggi. Al contrario, la libera creazione del cristianesimo significava, per Pletone, l’ammissione di un «vero e proprio pluralismo anarchico» (Masai 1956, p. 238) del tutto inconciliabile con la possibilità stessa della conoscenza umana. La spiegazione del male come prodotto di una libera scelta era altrettanto inaccettabile, in quanto si scontrava con un monismo rigoroso, da Pletone orientato deterministicamente.
Da questi presupposti, la concordia delle tradizioni filosofiche e il problema della conoscenza confluivano in una precisa opzione – antropologica non meno che teologica – circa il problema della libertà. Se l’Uno è il Bene e tutto è orientato al Bene, il male, nella prospettiva del filosofo di Mistrà, non è altro che la distanza ontologica dall’Uno. Un tale determinismo poteva conciliarsi con l’onnipotenza divina solo a condizione di fare coincidere il principio primo con la necessità. Il problema della conoscenza e dell’accesso alla verità veniva a coincidere con quello della definizione ontologica di un ordine naturale strettamente deterministico, il quale, se da un lato dava agio alla possibilità di un fondamento oggettivo della conoscenza della realtà, dall’altro escludeva l’onnipotenza divina e l’atto libero della creazione.
L’ostacolo che impediva a Pico di aderire a tale concezione non era solo di ordine gnoseologico, ma propriamente teologico e antropologico. Il determinismo implicato dalla coincidenza di principio primo e necessità non poteva in alcun modo conciliarsi con la difesa della libertà umana, centro dell’antropologia e dell’etica pichiana, e in pari tempo rendeva insuperabile – e proprio sui temi centrali della philosophia mirandolana – quel consenso tra aristotelismo e platonismo che il complatonicus amico dello stylus parisiensis voleva imporre nel milieu filosofico italiano.
Se la riflessione di Pletone si era svolta sul terreno della definizione dell’ordine ontologico della realtà, la concordia Platonis et Aristotelis proposta da Pico non poteva che fondarsi su «un nuovo metodo ermeneutico» (Pico 2010, p. 848Pico, G. (2010) Dell’Ente e dell’Uno. Edizione a cura di R. Ebgi. Milano: Bompiani.) e articolarsi sul campo della definizione dei modi e dei limiti della conoscenza umana.