3. ANTICIPARE I RISCHI FUTURI

Siamo infine arrivati al terzo ruolo di questo diritto in divenire: anticipare. A differenza del processo di responsabilizzazione, che deriva dal concetto di responsabilità, il processo di anticipazione nasce da ciò che chiamerei dei concetti “dinamizzati” dall’utilizzo di aggettivi che si riferiscono all’avvenire – generazioni “future” – o alla durata nel tempo – sviluppo “durevole”, pace “duratura”. Altri aggettivi, inoltre, evocano il tempo implicitamente: basti pensare a quando ci riferiamo a diritti “universalizzabili” o beni “mondializzabili”, piuttosto che a diritti “universali” e beni “mondiali”. Non è un caso che queste espressioni siano recenti: esse implicano una dinamica che sottolinea l’instabilità dei sistemi di diritto. Sembrano accompagnare la trasformazione delle paure, che si spostano dai rischi locali ai rischi globali, ma anche dai rischi naturali a quelli industriali o misti. Il nesso è chiaro: se l’essere umano ha contribuito a creare il rischio, egli può, e deve, tentare di prevenirlo. È senza dubbio prematuro voler elaborare una teoria dei processi di anticipazione in materia giuridica, ma è già possibile porre qualche base, trovare degli strumenti: in primo luogo empirici, poi assiologici, infine formali, per adattare il formalismo giuridico all’incerto, se non all’imprevedibile.

3.1. Strumenti empirici

Anticipare i rischi futuri significa combinare precauzione e azione. Il termine precauzione è diventato quasi tabù poiché rimanda al “principio di precauzione”, spesso mal interpretato. Non lo si deve intendere come un principio che porta all’immobilismo, quanto piuttosto come un principio che incita a sviluppare dei metodi di ricerca e di valutazione che presuppongono trasparenza e rigore. Occorre definire in modo trasparente degli indicatori di rischio e utilizzarli, ponderarli in modo rigoroso, in quanto ci troviamo nel contesto di una logica a indicatori multipli: non si deve modificare la ponderazione in funzione del risultato che si vuole ottenere. Sappiamo che questo principio, emerso nel diritto dell’ambiente, è stato in seguito adattato ai prodotti pericolosi.
In un mondo in cui la rapidità delle innovazioni fa aumentare la paura davanti all’imprevedibile, il principio di precauzione (Delmas-Marty 2018) viene il più delle volte percepito come una formula “incantatoria”, atta a scongiurare le incertezze scientifiche o tecno-scientifiche. Tale diffidenza, è un dato di fatto, può spiegarsi con l’eccessiva cautela dei poteri decisionali, che si nascondono dietro il principio di precauzione – il cui significato, però, non è scontato. Tale principio è poco amato perché ha un nome infelice, trattandosi in realtà di un processo di anticipazione. Questo processo continua a estendersi – dall’ambiente alla salute, dalle tecnologie dell’informazione alle biotecnologie – inasprendosi progressivamente – dalle raccomandazioni della soft law alle sanzioni della hard law. Di cosa si tratta? Tutto ciò che è tecnicamente possibile deve essere giuridicamente permesso? Oppure è necessario, per anticipare dei potenziali rischi, porre dei limiti all’innovazione ed estendere il diritto della responsabilità in nome della precauzione? Precauzione, innovazione, responsabilità, così tante formule incantatorie, e a volte contraddittorie, pronunciate per scongiurare le incertezze di un mondo in cui la rapidità delle innovazioni tecnologiche prende alla sprovvista giuristi e politici. Così, si estende la responsabilità dalla colpa al rischio; poi, dalla prevenzione del rischio comprovato alla precauzione di fronte al rischio incerto, poiché potrebbe avere degli effetti gravi e irreversibili per la sopravvivenza dell’umanità, la sicurezza del pianeta o l’equilibrio della biosfera. Di fronte alla rapidità delle innovazioni, è necessario anticipare e allo stesso tempo limitare l’innovazione; tale limite deve riguardare sia l’elaborazione delle norme che la loro applicazione.
Per quanto riguarda l’elaborazione di norme, il principio di precauzione comporta senza dubbio un’intensificazione normativa. Un’evoluzione del genere, osservabile a partire dagli anni Novanta, soprattutto in ambito nazionale ed europeo, è non solo quantitativa – con una moltiplicazione di testi e commentari – ma anche qualitativa – le norme sono sempre più vincolanti. Nato per definire un’azione anticipatoria rispetto allo stato delle conoscenze ancora incerte, il principio di precauzione si applica in primo luogo alla governance politica, per assumere progressivamente valore giuridico, comportando la responsabilità degli Stati, così come quella degli esperti e delle imprese. Quanto alla sua applicazione, il principio di anticipazione dei rischi implica un certo trasferimento di potere agli esperti per valutare le incognite e la verosimiglianza del rischio.
Per funzionare da regolatore alla ricerca di un equilibrio, il principio di precauzione suppone una valutazione permanente del grado di gravità del rischio – ovvero la probabilità, la natura, l’ampiezza, il carattere più o meno irreversibile di questo – ma anche una valutazione del grado di accettabilità – ovvero della sua tollerabilità. Bilanciando innovazione e conservazione, si evita di ricorrere a quella logica binaria del “tutto o niente” che limita la decisione a due sole possibilità: consentire qualsiasi innovazione che sia tecnicamente possibile, oppure vietarla nel momento in cui presenta un rischio, anche minimo.
Il principio di precauzione cambia invece di significato quando viene invocato a proposito della pericolosità riferita all’essere umano. In effetti, quest’ultima è talmente indeterminata che una sua valutazione è praticamente impossibile. Gli indicatori secondo cui gli esseri umani sarebbero predeterminati alla recidiva, ad esempio, sono troppo incerti e vaghi per essere testati da un punto di vista scientifico. Ricorrere alla precauzione in questo contesto rappresenta una catastrofe per le libertà. Quando una commissione ad hoc dà un parere di pericolosità, si tratta in effetti di una presunzione che non consente la prova contraria. Siamo tutti, in un certo modo, dei potenziali pericoli e siamo parimenti incapaci di provare il contrario. Se si limita il principio di precauzione al rischio naturale o industriale, accertato o potenziale, sembra possibile poterlo combinare con un’azione legale, ma di tipo nuovo. Non l’azione penale, punitiva, nel senso classico. Né un’azione di tipo civile, riparatrice o regolatrice come un’azione amministrativa. Piuttosto, un’azione che potremmo definire “prospettica” anziché retrospettiva: che la si chiami “preventiva” o “in preservazione”, l’idea alla base di questa azione legale è quella di esprimere una solidarietà nello spazio e nel tempo.
Per il giurista, ciò solleva tutta una serie di questioni tecniche. Le generazioni future, ad esempio, non hanno personalità giuridica. Chi sarà dunque titolare dell’azione? A chi attribuire la responsabilità e, infine, come quantificare il pregiudizio futuro ed evitare di trasformare l’azione giuridica in un’azione di tipo divinatorio? Alcune tecniche giuridiche, in effetti, permettono la rappresentanza indiretta delle generazioni future, attraverso il pubblico ministero o le organizzazioni non governative. Esistono anche delle tecniche più dirette: certi Paesi hanno creato un ombudsman per l’ambiente o un ombudsman per le generazioni future (Gaillard 2011, Delmas-Marty 2020).
Infine, la valutazione del pregiudizio presuppone una misurazione del rischio; in questo caso si può ricorrere alle competenze acquisite e ai loro strumenti: gli scenari di proiezione nel futuro. Poiché la nozione stessa di rischio implica un riferimento a dei valori comuni, anticipare presuppone anche il ricorso a ciò che chiamerei degli “strumenti assiologici”.

Rappresentare la natura al processo
Il processo di rappresentanza diretta è più raro, poiché umanizzare la natura rischia di disumanizzare la nozione di persona umana. Ciononostante, l’idea di rappresentare direttamente la natura come si rappresentano già le “persone giuridiche” continua ad avanzare, così come, più di recente, quella per le “generazioni future”. Anche rigettando l’antropomorfismo che attribuisce dei diritti alla natura nonostante l’assenza di qualsiasi reciprocità, nulla impedisce di riconoscere i doveri degli esseri umani nei confronti degli esseri viventi non umani, che si tratti di animali a rischio o della natura, organizzando la loro rappresentanza in quanto vittime.
Così, nel 2017, il Parlamento neozelandese ha riconosciuto, con una legge, il fiume Whanganui come entità vivente e indivisibile, e sono stati nominati dei custodi – un rappresentante dello Stato e il popolo dei maori Iwi – per difenderne gli interessi e rappresentarlo in giustizia. Lo stesso anno, in India, un’Alta Corte ha riconosciuto il Gange e il suo affluente, il fiume Yamuna, come persone viventi, e i giudici hanno nominato due personalità locali “genitori” di questi ecosistemi, con il compito di proteggerli.
Si riscontrano anche dei problemi legati all’attribuzione della responsabilità. A questi si può rispondere con la riaffermazione del principio di solidarietà, oppure con l’affermazione – che rappresenta una novità per il Consiglio costituzionale francese – che «la protezione dell’ambiente, patrimonio comune degli esseri umani, rappresenta un obiettivo di valore costituzionale»1Conseil constitutionnel, décision n. 2019-823 QPC du 31 janvier 2020. tale da giustificare, in particolare, delle limitazioni alla libertà d’impresa. Come la creazione di fondi speciali per il risarcimento, ciò costituisce un modo di esprimere la solidarietà.

Continua a p. 2 – 3.2. Strumenti assiologici