V. ADATTAMENTI ALFABETICI AL MOSAICO LINGUISTICO DELL’ITALIA PREROMANA
Muovendosi verso Occidente, nell’area mediterranea, fin dall’VIII secolo a.C., accanto all’uso limitato ad alcune aree dell’alfabeto fenicio, si affermano sistemi grafici derivati dall’alfabeto greco grazie al fenomeno della colonizzazione e delle relazioni stabilite da questo processo (Donnellan et al. 2016). Le scritture delle lingue dell’Italia antica (Fig. 31), infatti, derivano tutte – eccetto l’alfabeto sabino con caratteristiche specifiche – dall’alfabeto euboico d’Occidente: euboici sono, infatti, i primi viaggiatori greci che si spingono a ovest. La più antica iscrizione in caratteri alfabetici dal territorio italiano è considerata greca ed è il graffito inciso sul vaso trovato nella necropoli dell’Osteria dell’Osa (antica Gabii1Vedi capitolo IV, dal § “La scoperta che soprattutto ha contribuito ad alzare la cronologia dell’adozione, nonostante l’incertezza della lettura e di conseguenza del significato, è un graffito in lettere greche tracciato da sinistra a destra su un recipiente locale che proviene da una tomba di Osteria dell’Osa (successiva Gabii), datato a ca. il 770 a.C. (Fig. 29). Questa testimonianza, anche mantenendo la cronologia tradizionale, permette di confermare una formazione dell’alfabeto greco almeno alla data già proposta dell’800 a.C. circa, se non un po’ prima…”.). Successivamente, è l’etrusco a essere attestato e a servire da modello per gli alfabeti di gran parte dei popoli dell’Italia preromana.
Etrusco
Origine e sistema di scrittura2Le principali raccolte sono: CIE; TLE; Benelli, Pandolfini Angeletti, Belfiore 2009. Sulla lingua v. de Simone 1996 (Etruschi e Lemno); Bonfante, Bonfante 2002. Sulla scrittura in generale v. Bellelli, Benelli 2018. Sugli alfabetari e l’insegnamento della scrittura v. Pandolfini, Prosdocimi 1990.
È ben noto il ruolo degli Etruschi per lo sviluppo di molte culture dell’Italia antica e in particolare di quella latina, pur essendo ancora problematiche l’interpretazione e la classificazione della lingua da loro usata. Sulla base delle testimonianze degli autori antichi, la ricerca si è rivolta o verso l’area asiatica o invece verso quella egea; la lingua etrusca non è indoeuropea, pur mostrando contatti con questo gruppo linguistico (Giacomo Devoto la ha definita “periindoeuropea”). Ravvicinamenti sono proposti con la lingua e la scrittura attestate nell’isola di Lemno; tuttavia, la direzione della parentela (da Lemno all’etrusco o viceversa) non appare chiarita (v. Bellelli, Benelli 2018, p. 20, con bibliografia). La comprensione incompleta dell’etrusco è dovuta dunque alle difficoltà di ricostruire la lingua, nonostante le iscrizioni attualmente rinvenute ammontino a più di 10.000. Tra i documenti è di particolare importanza il rituale riprodotto su fasce di lino utilizzate per avvolgere una mummia ora conservata a Zagabria; si ricordano inoltre l’iscrizione della tegola di Capua del V secolo a.C., il più recente cippo di Perugia (Tav. 17), il sarcofago di Laris Pulena da Tarquinia, del IV-III sec. a.C., le iscrizioni su lamine in piombo da Magliano (VI sec. a.C.), da Volterra (III sec. a.C.) e l’iscrizione del così detto fegato di Piacenza II-I secolo a.C.). Risale al 1964 la straordinaria scoperta di due lamine d’oro iscritte dal santuario di Pyrgi (presso S. Severa, Roma), datate a ca. il 500 a.C. o poco dopo, il cui contenuto è sunteggiato da una terza lamina d’oro con iscrizione fenicia dedicata ad Astarte, dea con la quale è identificata l’etrusca Uni, cui era consacrato il tempio detto B al quale le lamine si riferiscono3Sulle lamine, sulle quali vi è una bibliografia vastissima, v. le raccolte di scritti per il cinquantenario della scoperta: Michetti, Baglione 2015 e Bellelli, Xella 2016, con presentazione degli studi precedenti..
L’origine della scrittura, attestata da ca. il 700 a.C. (Fig. 32), è ricostruita grazie a rapporti tra membri di società aristocratiche, con passaggi legati all’ideologia del simposio e al così detto “orientalizzante”, dalla Grecia euboica, attraverso gli stanziamenti di Pithekoussai (Ischia) e Cuma. I documenti sui quali ci si è basati per ricostruire il processo dell’adozione sono soprattutto alfabetari etruschi, in particolare quello famoso inciso su una tavoletta scrittoria in avorio, rinvenuta in una tomba di Marsiliana di Albegna (Grosseto), datato tra il 670 e il 650 a.C. L’alfabeto comprende 26 lettere, di cui 5 sono vocali. La scrittura è disposta da destra a sinistra e possiede tutte le lettere della serie fenicia, più quattro lettere prese a prestito da un alfabeto greco di tipo occidentale. È in particolare questa constatazione che ha portato a concludere per la presa a prestito del sistema etrusco da Greci euboici. Si deve notare che l’alfabetario riporta la serie teorica dei segni, con più lettere rispetto ai suoni della lingua etrusca che ha adattato nell’uso questa serie, rielaborandola. L’etrusco, infatti, non possiede né le consonanti sonore b, g e d, né la vocale o (e infatti le ha presto abolite dalla serie alfabetica). Per il suono k l’etrusco arcaico ha adoperato tre lettere, in base alla vocale seguente: K per ka, C per ce e ci e Q per qu. Nel tempo le ortografie sono però mutate secondo i luoghi; anche l’uso delle sibilanti è stato ben presto modificato rispetto al modello di Marsiliana, che presenta 5 segni per questa serie. Nella pratica sono usati due segni, che corrispondevano a una pronuncia leggermente diversa: il segno M (san) e un altro segno variabile, S (sigma); i suoni annotati sono trascritti ś e s; è usato inoltre un segno X (trascritto s.). I simboli sono variamente adoperati secondo le diverse zone e i periodi. Per la spirante f (distinta dall’aspirata ph) sono stati in un primo tempo adoperati i due segni vh (a volte hv); è stato poi creato un segno 8, collocato negli alfabetari in fondo alla serie.
Nella trascrizione moderna dell’etrusco si usano le lettere latine, salvo per le tre aspirate th, ph e ch, per le quali si adoperano generalmente i corrispondenti segni dell’alfabeto greco: θ, φ e χ. Nella maggior parte delle iscrizioni la scrittura va da destra a sinistra. Gli esempi di scrittura da sinistra a destra o bustrofedica sono rari. Nelle iscrizioni arcaiche le parole non sono distinte. Nel VI e V secolo a.C. in Etruria meridionale e in Campania è in uso un sistema di puntuazione, chiamato puntuazione sillabica, che indica con un punto le lettere che non fanno parte di una sillaba aperta (consonante + vocale). Tale puntuazione è adottata come norma nel sistema venetico. Dal VI secolo a.C., è stata introdotta la regola di separare le parole con uno o due punti.
Sviluppi4Si segue qui lo sviluppo tracciato in Bellelli, Benelli 2018, pp. 52-75.
Dagli inizi-metà del VII secolo a.C. circa, i documenti in etrusco si estendono fino al II-I secolo a.C. In questo lasso di tempo la scrittura si è diffusa in vaste aree e ha subito sviluppi nelle varie regioni e nel corso dei periodi di impiego. Si distinguono convenzionalmente una fase arcaica e una fase di tardo arcaismo, nella quale predomina la scuola di Veio seguita dalla scuola di Chiusi; alla fine del VI secolo a.C. importanti cambiamenti sono attribuibili a Caere, legati sembra alla famiglia Velianas5La famiglia del sommo magistrato Thefarie Velianas o Velinas, il dedicante delle lamine di Pyrgi. e al santuario di Portonaccio: divisione delle parole, forma di alcuni segni, uso stabile del grafema 8 per f, uso delle sibilanti sorde, andata a capo in fine di parola: un’importante testimonianza delle novità è costituita proprio dalle iscrizioni sulle lamine in oro di Pyrgi. L’interpunzione tra le parole e l’andata a capo si diffondono rapidamente ovunque. Il periodo tra il V e il IV secolo a.C. documenta una nuova grande fase dell’epigrafia etrusca, con estensione dell’uso della scrittura agli ambiti funerario e sacro e standardizzazione delle tipologie dei segni. A. Maggiani (Maggiani 1990) ha distinto per questo periodo tre importanti varietà di scrittura definite “corsivizzante” (varietà settentrionale), “capitale” (varietà tarquiniese-vulcente); tipo “regolarizzato” (varietà cerite-volsiniese). Queste tre varianti continuarono a essere adoperate regolarmente nelle diverse aree fino a circa il 300 a.C.
Un’ulteriore fase è quella che occupa il III secolo a.C., nel corso del quale le tradizioni scrittorie meridionali si estendono a settentrione, in primo luogo a Chiusi e poi a Volterra e a Perugia, con la produzione di iscrizioni su sarcofagi e urne funerarie. Caratteristica dell’influsso delle scuole di Tarquinia e Vulci sul Nord è la sostituzione del segno C al K per indicare il suono k. A Cortona si sviluppa l’uso di un nuovo tipo di segno pere e. L’influenza di Tarquinia-Vulci nell’area settentrionale nel II secolo a.C. è completamente sostituita dalla diffusione della variante di Caere e Volsinii (il così detto “regolarizzato”), che si presenta in questo periodo come la scrittura etrusca standard, “una sorta di ‘alfabeto nazionale’ etrusco” (Bellelli, Benelli 2018, p. 74). È l’ultimo periodo dell’epigrafia etrusca che cede ben presto il posto al latino (v. ad es. Marinetti 2000).
Altre scritture dell’Italia antica
L’etrusco ha fornito il modello a gran parte della documentazione epigrafica dell’Italia preromana, le cui lingue sono per la maggior parte, ma non tutte, della famiglia indoeuropea (a parte il retico; v. Silvestri 1993). Nell’Italia meridionale e in Sicilia sono attestate scritture di derivazione greca diretta: enotria, ausonia, messapica, sicula, elima, lucana. Derivano invece direttamente dal latino gli alfabeti ernico, peligno, marrucino, volsco, tardo-umbro, tardo-lucano, non trattati qui specificatamente. La trasmissione, dal periodo Orientalizzante (fine VIII-VII secolo a.C.)6V., per il Lazio, Botto 2005., avviene – come per l’etrusco – soprattutto tra gruppi elitari e di artigiani, in concomitanza con l’adozione di costumi che caratterizzano le nuove aristocrazie, quali quello del banchetto. Naturalmente i periodi di adattamento e di uso delle varietà di scrittura – che connotano determinati gruppi e regioni – sono diversi e dei principali sistemi si darà conto brevemente di seguito7V. in generale Prosodcimi 1978; Briquel, Lejeune 1989; Marchesini 2009; Morandi 2017; Maras 2020 (specialmente p. 929 e nota 5, con bibliografia).. Le varietà di scrittura elencate mostrano caratteristiche specifiche che le distinguono dal modello e attribuiscono loro un’individualità e tratti che a volte le accomunano con altri gruppi. Con il predominio politico di Roma si afferma progressivamente l’alfabeto latino.
I documenti, per il loro frazionamento linguistico e grafico, comportano problemi di classificazione e di denominazione la cui soluzione è complicata dallo stato delle testimonianze spesso scarse e comunque non omogenee. I nomi delle diverse lingue e scritture individuate corrispondono solo in parte a quelli sicuramente usati dagli antichi abitanti dei quali ci testimoniano le fonti letterarie: in vari casi sono convenzionali, desunti dalla zona geografica di attestazione o dal nome di popolazioni che sappiamo aver abitato anticamente nel territorio di provenienza dei documenti.
Si elencano di seguito, da nord a sud, le principali lingue e scritture testimoniate.
Italia settentrionale
Ligure e leponzio8V. ad es. Lejeune 1971; Rubat Borel 2005; Morandi 2017, pp. 403-437.
La regione compresa tra Piemonte orientale, Lombardia, Canton Ticino meridionale e Liguria presenta attestazioni linguistiche stratificate. Nell’insieme il materiale epigrafico è costituito da iscrizioni chiamate leponzie, attribuite per la maggior parte alla cultura detta di Golasecca – l’alfabeto usato è chiamato Alfabeto di Lugano. La lingua è indoeuropea, di tipo celtico (è detta paragallica da M. Lejeune) e la scrittura, di derivazione etrusca settentrionale, è documentata dalla seconda metà-ultimo quarto del VII secolo a.C., fino al I secolo d.C. Non si fa distinzione tra sorda k e sonora g, come in etrusco. Il segno usato è K. Al vicino popolo dei Liguri, di lingua mal definibile, ma di stampo celtico, sono attribuiti pochi testi (dalla Lunigiana, del VI-V secolo a.C.), redatti – sembra – in una scrittura etrusca non adattata9Rubat Borel 2005, pp. 19-20 in particolare (specificità del ligure nel corso dell’articolo).. Iscrizioni galliche più recenti, da Briona (Novara) e da Todi, si attribuiscono al periodo III-I secolo a.C.
Retico e camuno10V. in particolare per il retico Mancini 1999; Marchesini, Roncador 2015; Morandi 2017, pp. 381-402; Maras 2020, pp. 948-949. Per il camuno Mancini 1980; Morandi 2017, pp. 439-456; Maras 2020, pp. 950-951 (tutti con ulteriore bibliografia).
Il retico doveva essere diffuso nel Tirolo settentrionale e nelle valli delle Dolomiti, a Verona, Sondrio e Padova. Sussistono brevi iscrizioni su vari oggetti che testimoniano una lingua di classificazione discussa, considerata ora non indoeuropea e che farebbe parte con l’etrusco e la lingua della stele e altri documenti di Lemno11V. Maras, Lemnio in http://mnamon.sns.it/ (con bibliografia). In particolare, de Simone 1996; Rix 1998; Agostiniani 2013. di un gruppo denominato Tirrenico comune. Le iscrizioni si attribuiscono a un periodo tra il V (forse la fine del VI) e il I secolo a.C. e sono di derivazione etrusca settentrionale, con adattamenti.
Il camuno è testimoniato da una serie di incisioni rupestri della Val Camonica (raramente graffiti), insieme con raffigurazioni di cronologia diversa. La data delle iscrizioni è difficile da stabilire: si propone un inizio non precedente il IV secolo a.C. Come la cronologia, è incerta l’origine dell’alfabeto, noto anche da alfabetari, che appare in rapporto non esclusivo con l’etrusco.
Venetico12Lejeune 1974; Marinetti 2013; Morandi 2017, pp. 340-380; Maras 2020, pp. 946-948 (tutti con ulteriore bibliografia); sintesi: Montagnaro, Venetico, http://mnamon.sns.it/
È chiamata venetica la lingua delle iscrizioni preromane del Veneto, compresa l’area delle Alpi e l’Austria meridionale. L’aggettivo è usato di preferenza rispetto a quello di paleoveneta o semplicemente veneta, che qualifica invece la cultura attestata archeologicamente, e che comprende anche un’area dalla quale provengono iscrizioni retiche. I documenti più antichi risalgono al VI secolo a.C. e la scrittura nel suo sviluppo presenta due fasi distinte, anche se con tratti comuni quali la scrittura continua e la direzione non canonizzata: da destra a sinistra, da sinistra a destra, bustrofedica, a spirale, ecc. La prima fase, tra gli inizi e la fine del VI secolo a.C., mostra una derivazione dall’Etruria settentrionale (Chiusi) e una notevole unitarietà. La seconda fase – fine VI-I secolo a.C. – è invece in rapporto con un alfabeto etrusco meridionale (Veio o Cere) e presenta varianti secondo i centri di provenienza dei documenti. Il materiale epigrafico è stato trovato in buona parte a Este, dove sorgeva un importante santuario dedicato alla dea Reitia che era allo stesso tempo un centro di insegnamento della scrittura: lo testimoniano chiaramente gli ex-voto che consistono spesso in tavolette scrittorie e stili. È attestata la puntuazione sillabica, verosimilmente un sistema per insegnare e apprendere la scrittura basato sulla struttura delle sillabe; sono puntuate le lettere che non costituiscono una sillaba aperta – formata cioè da consonante + vocale (v. Prosdocimi 1983). Iscrizioni di ambienti periferici dei secoli VI-V a.C. non sono puntuate o mostrano un sistema meno coerente.
Italia centrale
Falisco13V. ad es. Mancini 2008 [2010]; Morandi 2017, pp. 83-94; Maras 2020, pp. 938-939. Sintesi: Maras, Falisco, http://mnamon.sns.it/
È chiamata falisca la lingua, affine al latino, documentata da una serie di iscrizioni dalla zona di Civita Castellana (antica Falerii Veteres) e dal vicino abitato di Falerii Novi, città che venne costruita dopo la distruzione della prima, nel 241 a.C., perché ribelle a Roma. Le testimonianze del falisco si estendono per un lungo periodo dal VII al II secolo a.C. e mostrano forme piuttosto stabili, con influenze, nel periodo più tardo, di vari centri etruschi e del latino. La scrittura è legata in particolare a Veio (notazione delle velari e particolarità grafiche). Rispetto al modello si nota l’uso dei segni per o, x e d, mancanti in etrusco. Come in latino, il segno V è usato in funzione sia vocalica sia consonantica; per il suono f è usata una lettera specifica in forma di piccola freccia. Si hanno altri adattamenti per suoni inesistenti in etrusco: i segni C e P sono usati per i suoni g e b; i segni K e Q sono abbandonati. La scrittura falisca è destrorsa nelle iscrizioni più antiche, poi sinistrorsa nei periodi più recenti, venendo così a essere distintiva rispetto alle iscrizioni latine. Gradualmente dal II secolo a.C. il latino sostituisce il falisco.
Latino14V. Cagnat 1914; Calabi Limentani 1974; Lassère 2007; da ultimi, Maras 2009; Beltrán 2015; Morandi 2017, pp. 67-82; Nonnis 2018; Maras 2020, pp. 940-942. Sintesi: Battistoni, Latino, http://mnamon.sns.it/
L’alfabeto latino deriva da quello etrusco attraverso un processo non completamente chiarito (v. ad es. Cristofani 1982). È testimoniato da una serie di documenti, generalmente brevi, iscrizioni su ceramica o metallo, dalla prima parte del VII e nel corso del VI secolo a.C. Tra questi, è di primaria importanza l’iscrizione arcaica della così detta fibula prenestina, attribuita al VII secolo a.C. e fatta conoscere da W. Helbig nel 1887. Considerata provenire con verosimiglianza dalla tomba Bernardini di Palestrina, non ha però dati di ritrovamento verificabili ed è stata da vari studiosi attribuita a un falsario: in maniera circostanziata in una memoria del 1980 di M. Guarducci, ribadita nel 1984 (Guarducci 1980 e 1984). Analisi recenti della spilla e considerazioni linguistiche convergono tuttavia ora nel considerarla autentica: oltre all’antichità accertata dell’oggetto, un falsario non sarebbe stato in grado, con le conoscenze di quel periodo, di riprodurre determinate caratteristiche linguistiche presenti nel testo15Mangani 2015 (storia della scoperta e dei giudizi sull’autenticità o meno fino alle attuali analisi); l’articolo fa parte di un volume del Bollettino di Paletnologia Italiana 99 (2011-2014) [2015], tutto dedicato alla fibula prenestina. Sulla lingua in particolare v. de Simone 2006..
L’epigrafia pubblica comincia a essere testimoniata tra la fine dell’Età monarchica e gli inizi della Repubblica (vari documenti ufficiali sono citati da autori antichi): si tratta soprattutto di iscrizioni che hanno a che fare con la sfera del culto, come norme sul funzionamento di santuari o riguardanti le offerte. Tra queste è il famoso cippo del VI secolo a.C., scoperto nel 1899 presso la Curia, nella zona del Comitium, dove è verosimile che sorgesse un luogo sacro. Il documento, il lapis niger o Cippo del Foro (Fig. 33), è molto lacunoso e doveva contenere norme rituali16Storia delle interpretazioni in Sarullo 2011; per le più recenti interpretazioni v. Nonnis 2018, p. 37, nota 13 (la bibliografia qui citata non mi è stata accessibile).; l’iscrizione è incisa dall’alto in basso e con direzione bustrofedica (sui documenti della zona v. Colonna 2016).
Il modello etrusco dell’alfabeto latino è dimostrato in particolare dall’uso del segno gamma (C) sia per la velare sonora g (posseduta dal latino e non dall’etrusco) che per la sorda k (K, segno eliminato in etrusco). I Latini, diversamente dagli Etruschi, usano inoltre due simboli distinti, come in greco, per le labiali e le dentali sonore b e d rispetto alle sorde p e t e il segno per la vocale o, eliminato dagli Etruschi (i segni in questione appaiono, come già osservato, negli alfabetari “teorici” etruschi arcaici).
Di conseguenza, nell’uso, il segno C indica sia g sia c. Il segno K si mantiene in alcune abbreviazioni (K per il prenome Kaeso; Kal. per Kalendae, il primo giorno del mese). La lettera qoppa (Q) è usata per la velare sorda seguita da u. Per f, come in etrusco arcaico, è usato il segno greco del digamma (F). Nel sistema più antico, come in etrusco, non esiste un segno specifico per il nesso ks; la lettera X è adottata in un secondo tempo e posta alla fine della serie alfabetica. Non sono usati i segni per le aspirate th (teta), ph (phi) e ch (chi), che furono conservati come segni numerici.
L’alfabeto latino così costituito consta di 21 segni. Il settimo era Z; questo, tuttavia, non adoperato, fu sostituito già nel III secolo a.C. da una nuova lettera inventata, secondo la tradizione, tra il 254 e il 234 a.C., da Spurio Carcilio, grammatico che aprì una scuola a Roma: è G, creata per annotare la velare sonora g, e formata aggiungendo un trattino al segno C. Quest’ultimo segno in alcune grafie oramai tradizionali mantenne il valore di sonora, come nelle abbreviazioni C e Cn per Gaius e Gnaeus.
Nel I secolo a.C., dopo la conquista della Grecia, l’adozione di termini greci ha richiesto l’introduzione di nuovi segni: è reintrodotta la lettera Z (zeta), posta alla fine dell’alfabeto, e adottata la upsilon (Y), anch’essa posta in coda alla serie: queste lettere sono usate per termini greci latinizzati, ad esempio zephyrus. Vi sono stati inoltre a Roma tentativi di introdurre segni nuovi: l’imperatore Claudio, studioso di grammatica, ha inventato il digamma inversum (F rovesciato), con valore di v, per distinguere i simboli per v e u, ambedue annotati da V; l’antisigma per il nesso ps (C rovesciato) e il segno di H a metà per un suono tra u e i (in optumus e lubens diventati poi optimus e libens). Queste innovazioni, tuttavia, non hanno avuto seguito. L’alfabeto latino di 23 lettere è diventato quindi quello canonico sia per la scrittura monumentale del periodo romano sia per quella del medioevo e della stampa attuale. Nel medioevo furono aggiunti i segni J, U e W.
Per i numerali sono impiegati simboli specifici, in parte segni dell’alfabeto originario, non usati nell’alfabeto latino. Per l’unità è adoperato un tratto verticale I; per la decina è usato il segno X. Il segno V per 5 è forse spiegabile come la metà di X; 50 era annotato dal segno a tridente corrispondente a ch negli alfabeti greci occidentali; è stato poi sostituito da L: th (un cerchio con punto centrale: theta) era impiegato per 100 ed è stato poi sostituito da C; ph (Φ) ha ricevuto il valore di 1000 (nel medioevo è stato sostituito dal segno M, al quale si era avvicinato nella forma); alla metà di Φ, D, è stato dato il valora di 500. Modifiche o combinazioni di questi segni sono stati usati per indicare i numeri superiori a 10.000.
Lingue sabelliche17V. da ultimo Poccetti 2020; sulle scritture v. pp. 413-414 (e bibliografia).
a. Paleo-sabellico18V. Marinetti 1985; Rix 2002; Morandi 2017, pp. 113-129; Maras 2020, pp. 953-956 (con rispettive bibliografie).
È chiamata paleo-sabellica o sud-picena (anche medio-adriatica, Morandi 1974) una lingua indoeuropea, affine all’umbro, usata in una regione compresa tra Abruzzo e Marche e documentata da circa 23 iscrizioni datate tra il VI e il IV secolo a.C. (in seguito sarà usato l’alfabeto latino). La scrittura deriva da un modello etrusco; sono presenti particolarità locali e, nella grafia, ai circoli si sostituiscono punti. Col tempo sono introdotti nuovi segni, quali l’asterisco (la cui lettura, insieme con quella del segno a quadrato, non è ancora individuata). L’iscrizione più famosa è quella incisa sul c.d. Guerriero di Capestrano.
b. Umbro19V. Prosdocimi 1984; Agostiniani, Calderini, Massarelli 2011; Morandi 2017, pp. 133-186; Maras 2020, pp. 957-959.
Si attribuisce il nome di umbro alla lingua indoeuropea attestata, tra il IV e il I secolo a.C., principalmente dalle tavole di Gubbio (o iguvine) (Devoto 1962) e da poche altre iscrizioni da località dell’Umbria (Marte di Todi, iscrizioni rinvenute nel santuario della dea Cupra a Col Fiorito). La lingua umbra ha numerosi tratti in comune (isoglosse) con l’osco, così che si usa a volte l’espressione comune di “osco-umbro” (v. ad es. Rix 1993). Apparentate con l’osco e con l’umbro sono le varietà linguistiche attestate da un gruppo di iscrizioni chiamate sabelliche e che sono ascritte alle popolazioni dei Peligni, dei Marrucini, dei Vestini, dei Marsi, degli Equi, dei Volsci e dei Sabini (v. ad es. Rix 2002).
Le tavole Iguvine, datate nella seconda metà del II secolo a.C. (Prosdocimi 1984), forniscono, per il loro contenuto e per la lunghezza, un ampio materiale linguistico omogeneo. Sono 7 tavole in bronzo, trovate nel 1444 e acquistate dal comune di Gubbio nel 1456, che sono alla base delle prime decifrazioni della scrittura etrusca. Attestano una scrittura locale di derivazione etrusca – si sono individuate man mano come modelli scritture di città etrusche diverse a seconda delle iscrizioni. Più tardi la scrittura locale è sostituita da quella latina: in alcune parti delle tavole, accanto alla scrittura locale, è già usata quella latina. Nella scrittura locale, d’altra parte, sono presenti modifiche del modello etrusco per esigenze della lingua da annotare: così sono stati creati segni appositi per un suono trascritto convenzionalmente da ç e per una liquida trascritta da ř. La direzione della scrittura è da destra a sinistra.
c. Osco20Si lasciano da parte le iscrizioni dei popoli parlanti dialetti chiamati sabellici e che sono apparentati o all’osco o all’umbro, dialetti detti anche medio-italici; v. ad es. Wallace 2007.
È chiamata osca (v. Morandi 2017, pp. 187-242; Maras 2020, p. 956) la lingua indoeuropea attestata a partire dal V secolo a.C. (iscrizioni “presannitiche”) – e preceduta da una fase di formazione tra VI e V secolo a.C., detta proto-campana, fino al I d.C.; era parlata da popolazioni dell’Italia centro-meridionale (soprattutto i Sanniti), unite in federazione dalla fine del V secolo a.C. I documenti che la rappresentano si estendono dall’Abruzzo (Agnone, Pietrabbondante) fino a Messina, dove l’osco è stato portato dai soldati mamertini di Agatocle, comprendendo territori della Campania e della Lucania. I principali documenti sono il cippo di Abella (o abellano, presso Nola), la tavola in bronzo di Agnone, le iscrizioni di Pietrabbondante (in provincia di Isernia); numerose iscrizioni vengono da Capua, alcune da Cuma. Iscrizioni la cui data scende fino al I secolo d.C. sono testimoniate a Pompei; altri documenti provengono da Ercolano e da Teano. Il documento più lungo è quello inciso sulla tavola in bronzo da Bantia (Potenza), scritto in latino e in osco (in alfabeto latino), dei primi decenni del I secolo a.C. (il testo originario era in latino, quello in osco è successivo). Un gruppo di documenti proviene da Rossano di Vaglio.
Le iscrizioni sono redatte in tre tipi di scrittura: una di origine etrusca (segno 8 per f; ma conservazione dei segni per b, d e g); sono poi testimoniati segni specifici trascritti í (i aperto) e ú (u aperto): questa scrittura è usata ad es. per la tavola di Agnone e il cippo abellano. Una seconda scrittura deriva da un alfabeto greco: è presente ad es. nei documenti di Rossano di Vaglio; infine, la scrittura latina compare ad es., come notato, nel settore osco della tavola bantina.
Italia meridionale
Messapico21V. in particolare (con bibliografia ulteriore), Santoro 1982; de Simone, Marchesini 2002; Marchesini 2020.
Il messapico è una lingua indoeuropea che deve il nome alla popolazione dei Messapi; non è apparentata con alcuna lingua dell’Italia antica ed è nell’insieme isolata rispetto ai gruppi delle lingue indoeuropee (confronti si sono cercati in ambito balcanico); è attestata da più di 600 iscrizioni, redatte in una scrittura caratteristica, rinvenute essenzialmente nella penisola salentina, nei territori delle province di Taranto, Brindisi e Lecce. Il messapico è da considerare forse come la varietà meridionale di una più vasta unità iapigia che comprendeva più a Nord la zona dell’antica Apulia, la regione abitata dalle popolazioni chiamate Dauni e Peuceti. Il maggior numero delle iscrizioni viene da Lecce; si hanno poi documenti da Oria (Uria), e Mesagne; iscrizioni messapiche provengono anche da Ceglie (Caelia), Rudiae, Valesio (Balesium), Cavallino, Ugento. Sono importanti i numerosi graffiti (con anche raffigurazioni preistoriche e testi latini) nella così detta Grotta Poesia, presso Roca Vecchia, individuati da C. Pagliara nel 1983. Le iscrizioni messapiche sono per lo più funerarie; si hanno inoltre alcune iscrizioni su elementi architettonici, su ceramica, su pesi da telaio, oggetti in metallo e legende monetali.
I documenti si scaglionano tra il VI e il II secolo a.C., quando sono sostituiti dall’uso del latino. Sono state individuate sette fasi, che mostrano scomparse e nuovi tipi di segni. Le iscrizioni più numerose si concentrano nei secoli IV e soprattutto nel III a.C. La scrittura si considera di derivazione laconico-tarantina, con, fin dall’inizio, derivazioni da altro modello e sviluppi propri, dovuti ad adattamenti alla fonologia della lingua da annotare: sono stati così creati segni nuovi, mentre segni esistenti sono usati per suoni specifici, non sempre determinabili con sicurezza. La scrittura è da sinistra a destra; le parole non sono in genere separate; nei testi arcaici soprattutto vi sono esempi di scrittura bustrofedica.
Sicilia
Elimo e siculo22V. in particolare Agostiniani 1992; Poccetti 2012; Prag 2020 (con ulteriore bibliografia precedente).
Sin da epoca molto antica, prima del fenomeno della così detta colonizzazione, la Sicilia è caratterizzata da un incrocio di popolazioni e di lingue. Ci si sofferma qui, per le peculiarità epigrafiche individuate, sui popoli anellenici – esclusi i Fenici – cui si riferiscono autori antichi e la cui lingua e scrittura sono state individuate con una certa sicurezza. Le fonti antiche – in particolare il passo di Tucidide 6,5,2 – si riferiscono a tre popolazioni “indigene” della Sicilia: i Sicani, nella parte occidentale; gli Elimi, nelle città di Erice e Segesta; i Siculi, che avrebbero cacciato i Sicani verso le parti meridionale e occidentale della Sicilia e si sarebbero stabiliti quindi nel sud e nel centro. Le tradizioni degli autori antichi sono tuttavia discordanti e le attestazioni epigrafiche scarse. Infine, le ricerche degli ultimi decenni hanno messo in evidenza che non vi è una differenziazione evidente tra il materiale epigrafico e linguistico attribuibile ai Sicani e ai Siculi: si distinguono perciò attestazioni riferite a Siculi (comprendenti la precedente documentazione detta sicana) e agli Elimi.
a. Elimo23V. in particolare, con raccolta dei dati, De Vido 1997; sull’elimo (con ulteriore bibliografia), Agostiniani 2015; inoltre L. Biondi, Elimo, http://mnamon.sns.it/ (lingua, scrittura, bibliografia).
Il materiale epigrafico elimo, concentrato nella parte nord-occidentale della Sicilia (Erice, Segesta, in particolare il deposito di Grotta Vanella, e Entella), consta di circa 400 esempi che si datano a partire dagli inizi del V secolo a.C., forse già dalla fine del VI, e si concentrano nel corso dello stesso secolo. Attestano una lingua indoeuropea di difficile classificazione, ora considerata italica dalla maggior parte degli studiosi. Le iscrizioni provengono da due sole categorie di oggetti: ceramica, spesso d’importazione attica, e legende monetali (da Segesta e da Erice). Il modello dell’alfabeto è quello greco di Selinunte, con adattamenti alle specificità della lingua locale.
b. Siculo24Agostiniani 1992; Cordano 2012; Cusumano 2006; Prag 2020, pp. 537-541.
Le iscrizioni attribuibili a Siculi – diffuse in un’ampia area della Sicilia sud-orientale – sono di numero molto limitato (v. Marchesini 2009, p. 80, che cita 14 testi), poco omogenee e spesso di discussa attribuzione. Si datano tra la fine del VI e la prima metà del V secolo a.C. e le loro zone di provenienza sono quelle di Catania (regione dell’Etna), di Megara Hyblaea e Siracusa e della Sicilia centrale (entroterra di Gela) (Prag 2020, p. 538, con nota 20 per le zone di attestazione). La lingua, considerata affine al gruppo sabellico, non è unitaria. Per la sua documentazione, sono da menzionare circa cento parole attribuite da autori latini ai Siculi e dette “glosse sicule”. Dal punto di vista epigrafico, oltre a iscrizioni su vasi, esistono documenti su pietra, su tegole e pesi da telaio, con testi più lunghi rispetto a quelli elimi (Cordano 2012; Prag 2020, pp. 539-541). Il tipo di scrittura varia a seconda delle zone di provenienza e si lega all’influenza delle scritture dei centri greci di riferimento: Gela, Camarina, Siracusa, Megara Hyblaea, Catania (Prag 2020, p. 544); documenti di centri diversi hanno in comune l’uso di un simbolo tipico per alpha, chiamato alpha “siculo”, che dà all’insieme una certa coesione.